Meno di due mesi fa, l’Australian Strategic Policy Institute, un think tank di esperti indipendente molto ascoltato nei palazzi, aveva definito la proposta della britannica BAE Systems l’opzione “più rischiosa” e “possibilmente più costosa”. Alla fine, però, la politica ha vinto e, venerdì scorso, il governo australiano ha annunciato l’assegnazione del contratto da 35 miliardi di dollari per la costruzione di nove fregate proprio all’alleato di sempre, il Regno Unito.
Le navi Type 26 Global Combat, come annunciato dal primo ministro Malcolm Turnbull, saranno costruite ad Adelaide nei cantieri navali della ASC Shipbuilding, di proprietà governativa, che, per la durata del contratto, diventerà una sussidiaria della BAE.
La produzione, che secondo il governo creerà 4000 posti di lavoro, inizierà nel 2020 e le fregate dovrebbero entrare in servizio verso la fine degli anni 2020. Sostituiranno le fregate di classe Anzac, in servizio dal 1996, per formare il fulcro della futura posizione di difesa regionale dell’Australia.
“Le unità di classe Hunter assicureranno alle nostre Forze di Difesa i più alti livelli di letalità e deterrenza di cui necessitano in periodi di incertezza globale”, ha detto Turnbull. Incertezze che, attualmente, provengono in larga parte dalla Cina, con la militarizzazione del Mar cinese meridionale (sempre la scorsa settimana, Turnbull ha annunciato l’acquisto di droni spia per 6 miliardi di dollari da dispiegare proprio in quel tratto di mare) e la crescente influenza nel Pacifico, dove Pechino avrebbe finanziato un mega-porto in costruzione a Vanuatu, grande abbastanza per attraccare navi da guerra.
Il ministro della Difesa Christopher Pyne si è detto “molto contento” della scelta fatta sulle fregate: “È il modello con la maggiore capacità di crescita. È il più all’avanguardia ed è pensato per essere una piattaforma per sottomarini da guerra, non ha bisogno di modifiche, per questo crediamo che risponda ai bisogni della Marina e della nazione”, ha dichiarato.
Il colosso britannico della difesa ha battuto la dura concorrenza di altre due offerte, le FREMM (Fregate Europee Multi-Missione) dell’italiana Fincantieri e le F100 potenziate della spagnola Navantia.
Secondo quanto comunicato da fonti della Difesa, mentre il design britannico è considerato il più avanzato dei tre che erano in gara, si tratta anche dell’opzione più rischiosa, in quanto, ad oggi, nessuna unità è stata ancora costruita e, nello stesso Regno Unito, le Type 26 non diventeranno operative prima del 2027.
Il ministro Pyne ha negato che la relazione privilegiata con la Gran Bretagna (storicamente, ma anche a livello militare e di intelligence come partner dell’alleanza Five Eyes) abbia favorito la vittoria di BAE Systems. “Ovviamente, sotto certi punti di vista, rende l’accordo più semplice perché il Regno Unito e l’Australia sono molto vicini militarmente, ma non è stata la prima considerazione – ha assicurato– . BAE, Fincantieri e Navantia avevano tutte offerte molto solide”. I progetti per assicurarsi il più grande contratto australiano di costruzione di navi militari in tempo di pace erano sicuramente competitivi e tutti i Paesi coinvolti si erano mossi da tempo con un’intensa attività di lobbying.
Fincantieri aveva aperto una sede proprio ad Adelaide e la sua proposta, l’unica tra quelle in gara già testata e operativa, era stata giudicata favorevolmente sia dalla Marina australiana sia dall’analisi dell’Australian Strategic Policy Institute. Le fregate della Fincantieri erano state descritte come “un design relativamente nuovo ma provato” e ben adatte a un ruolo specifico di lotta antisommergibili. Secondo l’Istituto, inoltre, Fincantieri “come grande costruttore di navi militari e commerciali” offriva probabilmente le maggiori opportunità per l’industria australiana, grazie all’accesso alla sua catena globale di forniture. La capacità degli hangar della classe FREMM, che possono alloggiare due elicotteri antisommergibili Seahawk, era stata infine descritta come una delle maggiori attrattive dell’offerta italiana.
Questi vantaggi si sono però rivelati insufficienti di fronte alla componente politica che ha prevalso nella scelta dell’esecutivo australiano.
Il primo ministro Turnbull ha subito discusso l’accordo con l’omologo britannico Theresa May e si è detto compiaciuto di aver stretto questa partnership con uno “dei nostri più vicini alleati”.
Per l’industria italiana della difesa è sicuramente una doccia fredda, un contratto da 35 miliardi non è qualcosa che si vede tutti i giorni (ne risentirà anche Leonardo che a Fincantieri fornisce i sistemi di difesa da installare sulle navi), ma il periodo attuale non si può definire un momento di crisi.
Per Fincantieri, il test australiano è pur sempre la conferma della validità del suo progetto, che resta in corsa negli Stati Uniti per il programma denominato FFG(X) della Marina militare americana e che, a detta dello stesso Australian Strategic Policy Institute, era comunque l’unico in grado di assicurare, anche grazie a un piano finalizzato a trasformare l’Australia in un vero e proprio hub dell’industria cantieristica, come auspicato dal governo di Canberra.
E se è vero che l’assegnazione della maxi commessa per la costruzione delle fregate australiane rappresenta la seconda vittoria consecutiva per BAE Systems, che solo la settimana prima era stata selezionata dal Pentagono per costruire veicoli d’assalto anfibi per il corpo dei Marines, è anche vero che BAE è stata scelta insieme a Iveco, parte del gruppo italo-americano Fiat Chrysler Automobiles (FCA).
Anche Mediobanca Securities ha ridimensionato la ‘mazzata’ australiana, sottolineando come il gruppo di Trieste abbia comunque uno stock di ordini da evadere pari a 22 miliardi di euro. “Il che implica una copertura dei ricavi per più di quattro anni”, sottolinea la banca d’affari citata dal portale Formiche.net. Lunedì scorso, Fincantieri si è aggiudicata un nuovo contratto da 550 milioni di euro per la costruzione di tre navi per la guardia costiera norvegese e all’indomani della notizia della perdita della gara ha continuato a guadagnare il 3,4% in borsa. Segno che il gruppo è in grado di reggere anche gli scossoni più forti.