“Ho sempre creduto ai miracoli”, ha detto lasciando apertamente trasparire la sua gioia Scott Morrison ai fedelissimi riuniti all’Hotel Sofitel di Sydney, dopo aver ricevuto la telefonata con la quale Bill Shorten ha accettato la sconfitta e dopo aver dato al leader dell’opposizione l’opportunità di presentarsi davanti ai suoi sostenitori, che si aspettavano una serata ben diversa da quella che hanno vissuto sabato sera. Sconfitta dolorosissima e abbandono immediato della leadership nel miglior intervento di tutta la campagna per sincerità e stile.
Ma la lunga nottata post-elettorale è tutta del primo ministro, riconfermato contro ogni aspettativa e previsione (se non quella, onore al merito, del commentatore di Sky, nonché famosissimo controverso conduttore radiofonico di Sydney, Alan Jones, che giovedì sera aveva previsto tutto, sollevando sorrisetti di ironia in mezza Australia). Tutto come, sulla carta, non doveva essere: opinionisti e commentatori vari, ma anche la maggior parte dei parlamentari laburisti e un buon numero di liberali (anche se non lo ammetteranno mai) messi fuori gioco da sondaggi mai così sbagliati. Morrison ha vinto le elezioni che Shorten ‘non poteva perdere’. Altro che un altro 2013, con gli elettori che avevano deciso con largo anticipo, già prima della campagna, di scaricare il governo.
Si era illuso Shorten che la corsa in numeri record alle urne, prima della giornata elettorale vera e propria, fosse un segnale di svolta, una voglia irrefrenabile di cambiamento, la prova del vento che soffiava forte a favore dei laburisti. Aveva invece ragione la deputata Maria Vamvakinou (confermata nel seggio di Calwell, Vic) che, in occasione di un’intervista nella nostra redazione condotta dal collega Riccardo Schirru, aveva parlato di file nei seggi, ma di una strana e preoccupante mancanza di entusiasmo, quasi un semplice dovere da compiere, un compitino da svolgere abbastanza svogliatamente: “Non c’è effervescenza nell’aria, non ci sono sorrisi, non c’è la giusta atmosfera”, aveva fatto osservare mettendo in guardia da un eccessivo ottimismo per quel desiderio di cambiamento che effettivamente non c’è stato. E Morrison con una campagna in solitaria, in quel suo ‘uno contro tutti’ ha fatto il resto, con diligente attenzione ai dettagli nei seggi che contano. Avanti piano contro l’onda delle novità, di una promessa maggiore equità che gli elettori evidentemente non hanno abbracciato con sufficiente calore.
Morrison, e almeno questo l’abbiamo sempre detto, ci ha sempre creduto e creduto fino in fondo: ha fatto campagna da solo con un messaggio senza fronzoli, semplice e diretto, puntando quasi tutto sull’economia che, elezione dopo elezione, rimane sempre il tema che va per la maggiore. Un programma minimalista, senza acuti se non i costanti segnali di allarme lanciati per le presunte conseguenze (fiscali ed economico- finanziarie) delle ambizioni laburiste.
Sulla sponda politica opposta una indubbia voglia di voltare pagina, una martellante campagna sulle differenze, sui cambiamenti climatici che continuano a fare illustrissime vittime: Malcolm Turnbull (scalzato da Abbott alla guida dei liberali nel 2009 per essersi schierato con i laburisti sull’introduzione di una borsa delle emissioni, ETS), Kevin Rudd nel 2010 (dopo il fallimento del vertice sul clima di Copenaghen e il susseguente abbandono del progetto ETS), Julia Gillard nel 2013 (dopo l’introduzione della ‘carbon tax’), Abbott nel 2015 (sondaggi a picco e critiche sul suo scetticismo ambientale), Turnbull nel 2018 (dopo un divisivo duello interno e l’inutile abbandono in dirittura d’arrivo del National Energy Guarantee), Shorten nel 2019 dopo una campagna in cui clima ed emissioni sono stati costantemente al centro del dibattito elettorale.
Il Queensland in particolare ha severamente punito l’agenda ‘verde’ laburista: bocciata con una perdita generale di voti del 3,6 per cento, ma nei seggi della Adani (Dawson, Flynn, Capricornia), del carbone da estrarre ed esportare, lo spostamento di voti a sfavore della squadra di Shorten è stato attorno al 12 per cento. Un altro mondo, dove Clive Palmer e Pauline Hanson hanno raccolto consensi veri. E Morrison aveva visto giusto optando per una partnersghip che può essere ‘moralmente’ discutibile finché si vuole, ma che è stata sicuramente determinante ai fini degli obiettivi prefissati. Hanson vicina ai nazionali, Palmer ai liberali e l’LNP ha letteralmente sfondato.
Delusione cocente per Shorten quella di sabato e più di qualcuno ha già cominciato a parlare di lezione per il futuro, di una impossibilità per qualsiasi opposizione di presentarsi con un piano rivoluzionario e dettagliato, con un’agenda piena di cambiamenti, perché il pubblico non si fida, prende paura e alla fine preferisce non rischiare. Ma forse, perché col senno del poi tutto è sempre più chiaro e logico, i cambiamenti bisognava semplicemente spiegarli meglio; forse proprio quel “non vi preoccupate dei costi (delle misure anti cambiamenti climatici) perché non fare e più costoso del fare”, non è piaciuto fino in fondo; forse l’impopolarità (registrata da sempre) di Shorten contava di più di quanto gli strateghi laburisti si aspettavano; forse quell’aggiustamento dei ‘privilegi’ fiscali sulle pensioni autogestite hanno fatto suonare più di qualche campanello d’allarme nella vasta fascia dei pensionati o di elettori comunque vicini all’età della pensione; forse sono più di quelle che i laburisti si aspettavano le piccole aziende e attività commerciali che temevano un ritorno ad un regime salariale molto meno flessibile di quello attuale; forse non è nemmeno piaciuto quel costante riferimento al ‘top end of Town’, quel concetto del ‘noi e loro’, del ritorno ad una specie di ‘lotta di classe’ e l’idea di una forzata ridistribuzione del reddito.
Morrison ha ragione di parlare di ‘miracolo’, una rimonta che è tutta sua e che gli permetterà ora di scegliere con indubbia ed indiscutibile autorità la squadra e la direzione da prendere senza doversi guardare alle spalle: il miracolo è stato infatti completato dalla fine della lunga carriera parlamentare di Tony Abbott. Anche nel suo caso un’uscita elegante di scena, dopo la vittoria di dell’indipendente Zali Steggall che, con gli altri indipendenti e rappresentanti di partiti minori, avrà sicuramente un ruolo importante nei prossimi tre anni, forse addirittura determinante per il governo che verrà, di maggioranza o minoranza che sia una volta che saranno completati i conteggi. Tre indipendenti (Steggall, Andrew Wilkie e Helen Haines) a fare squadra, più il verde Adam Bandt, Rebekha Sharkie del Central Alliance e Bob Katter (KAP), riconfermato senza problemi nel suo ‘feudo’ di Kennedy, perché ogni seggio del Queensland fa storia se, come lo Stato in generale, sempre sorprendente, sempre diverso, sempre unico, spesso decisivo: pro-Rudd, anti Gillard, anti Turnbull, ma soprattutto anti Shorten e sicuramente pro-Morrison. Lo Stato, giusto per intenderci, di Pauline Hanson e di Clive Palmer che, nonostante i 50 o 60 milioni spesi nella fastidiosissima campagna delle pagine gialle e dei ancora più irritanti spot e slogan radiofonici e televisivi, non è riuscto nel suo intento di assicurarsi una poltrona nel Senato, ed è già qualcosa di positivo, come il certo insuccesso di Fraser Anning. La sua breve esperienza parlamentare è finita.
Gli australiani difficilmente sbagliano, aveva ribadito Bob Hawke solo pochi giorni fa, e se lo fanno perlomeno imparano e non ripetono l’errore.