Ogni giorno una, ogni giorno peggio per Malcolm Turnbull e il suo governo. I nazionali spingono sempre più a destra per cercare di contrastare l’onda di One Nation, l’agguerrito gruppo dei conservatori con la C maiuscola, capeggiato da un rinvigorito e incattivito Tony Abbott, ormai si trattiene a stento lasciando a quello che sembra essere diventato il portavoce dei moderati, Christopher Pyne, il compito di cercare di tenere insieme una squadra sempre più sfilacciata e impaurita per quello che può succedere. Le elezioni sono ancora lontane, ma Turnbull potrebbe già essere entrato in quella fase politicamente mortale del ‘non ascolto’ da parte del pubblico che aveva segnato l’inizio della fine di Julia Gillard.
Il leader che doveva rilanciare le sorti della Coalizione sta fallendo anche l’esame di riparazione che gli elettori gli hanno accordato lo scorso luglio.
Il ritorno ad un clima di ‘normalità’, dopo la tormentata gestione Rudd-Gillard-Rudd e la susseguente esperienza Abbott, rimane un miraggio. Siamo infatti ritornati all’ instabilità continua, ai desideri di vendetta, al procedere senza chiari traguardi, perfino alla tattica del ‘no’ a tutto, sollecitata dalla debolezza di chi guida la danza, di un leader ed un governo che sembrano continuare a non capire che gli australiani hanno bisogno di sentirsi rassicurati, di messaggi in positivo, di qualcuno che sappia gestire con intelligenza e fermezza il Paese, senza il bisogno di alzare la voce. Ed invece siamo al gran torpore o agli applausi sollecitati da un pomeriggio di insolita ‘violenza verbale’ nei confronti dell’avversario. Una fiammata che serve ben poco a governare bene, a rassicurare, a guadagnare rispetto e autorità.
Ormai le divisioni all’interno della Coalizione sono davanti agli occhi di tutti: come ha scritto sul quotidiano ‘ The Australian’ Graham Richardson (l’ex grande manovratore del Partito laburista dell’era Hawke-Keating che di movimenti di palazzo se ne intende), nella squadra liberale c’è solo un 40 per cento di deputati e senatori che ancora non sa esattamente cosa fare. Il 60 per cento è schierato in favore (una leggera maggioranza) o contro Turnbull. I ‘centristi’, in un futuro che potrebbe non essere molto lontano se i sondaggi continueranno ad indicare un ritardo sempre più pericoloso nei confronti dei laburisti, però potrebbero cominciare a posizionarsi, spinti dai loro interessi di sopravvivenza: la conta potrebbe iniziare da un momento all’altro e, se non è ancora successo, è solo per una mancanza di solide alternative. A destra piace Peter Dutton, indubbiamente efficace come ministro dell’Immigrazione e ‘mastino’ in Aula, ma non è certo (e non lo sarà mai) un beniamino del pubblico. Il ritorno di Abbott? Come quello di Rudd: la voglia di rivincita non paga, anzi dà parecchio fastidio, probabilmente avrebbe come unico risultato quello di cementare la sconfitta con largo anticipo. Julie Bishop, senza ombre nell’incarico che ricopre di responsabile degli Esteri non ha certo brillato nella sua breve esperienza (quattro mesi) come portavoce del Tesoro: rientra nel gruppo dei non schierati e al pubblico non dispiace. Scott Morrison invece rischia di fare la fine di Joe Hockey: grandi aspettative andate deluse una volta avute in mano le redini finanziarie del paese, con l’handicap di non essere mai riuscito a trasmettere un segnale forte, di competenza e determinazione, in un ruolo chiave per il successo di qualsiasi governo (vedi Paul Keating e Peter Costello).
A mantenere sotto controllo le tentazioni anche la debolissima maggioranza. Se il partito decidesse di cambiare ancora, infatti, Turnbull probabilmente abbandonerebbe senza perdere un attimo di tempo il Parlamento innescando la mina delle suppletive. Il seggio di Wentworth è molto meno sicuro per i liberali di quello che potrebbe sembrare e il governo certi rischi, numeri alla mano, semplicemente non se li può permettere.
Il primo ministro è comunque in guai seri e i tormenti continueranno fino a quando non riuscirà a parlar chiaro, a trovare il coraggio di assumersi le responsabilità per quello che non va e non prenderà davvero in mano la situazione, senza farsi trascinare in lunghi dibattiti su temi che possono essere affrontati e risolti, con una certa fermezza, minimizzando strascichi polemici. I matrimoni gay? Impegni presi con gli elettori e mantenuti: il Parlamento ha bocciato la proposta del plebiscito e se ne riparlerà nella prossima campagna elettorale. Indennizzi per il lavoro domenicale? La Fair Work Commission ha dato il suo parere, se c’erano da esprimere delle opinioni in merito a quello che era chiamata a decidere era doveroso farlo prima della ‘sentenza’. Possibile che qualcuno in casa liberale non avesse messo in preventivo le scontate proteste dei lavoratori interessati e l’altrettanto ovvia levata di scudi dei sindacati e dei laburisti? Le modifiche alla sezione 18 C della legge anti discriminazione razziale? L’apposita indagine parlamentare è praticamente arrivata alla decisione del “non è necessario procedere”. Capitolo chiuso, anche perché è difficile capire questo disperato desiderio di poter ‘offendere’ e ‘insultare’ qualcuno sulla base di razza, colore, nazionalità ed origine etnica, nel nome di una presunta libertà di espressione.
Qualche perplessità è invece comprensibile sui criteri usati dalla Commissione sui diritti umani per dare l’autorizzazione a procedere in alcuni recenti casi, che non hanno di certo aiutato la difesa della legge in questione.
Per Turnbull comunque il tempo comincia stringere. Ha dalla sua parte una posizione di vantaggio sull’opposizione sui temi sempre caldi e attuali dell’economia e della sicurezza, anche se in quest’ultimo caso non era necessario ricorrere (e sottolinearlo almeno tre o quattro volte durante la stessa conferenza stampa) della ‘licenza di uccidere’ i terroristi dell’Isis data ai soldati australiani impegnati in Iraq e Siria.
Sul fronte dell’Immigrazione la situazione rimane fluida e un po’ di onestà non farebbe male a nessuno. Il tema è stato rilanciato su scala globale da Trump, anche se Pauline Hanson lo aveva anticipato nel suo discorso inaugurale nel Senato, e Bill Shorten ha subito capito che c’erano voti in gioco così ha immeditamente proposto una versione ‘casalinga’ del pensiero del presidente Usa, insistendo sul “comprare prodotti australiani, produrre in Australia, offrire lavoro agli australiani” oltre che chiedere interventi sui visti 457 (lavoratori temporanei) ben sapendo che la stretta è in atto già da qualche tempo.
Comunque la soluzione più immediata ai problemi del Paese l’ha data ieri, in un’intervista televisiva, la senatrice Hanson dicendo che in Australia ci vorrebbe “un leader come [il presidente russo] Putin, capace di farsi contare e di lottare per il suo Paese”. Come sempre, massima semplificazione perché la realtà è troppo complessa: attenzione però ai possibilissimi casi di contagio.