Ormai è guerra aperta: non passa giorno che Tony Abbott non critichi più o meno direttamente Malcolm Turnbull. Incurante del fatto che un sondaggio-lampo abbia indicato che la maggioranza del suo partito non considera possibile un suo ritorno alla guida del partito stesso, continua a crederci, anche se si guarda bene dall’ammetterlo preferendo parlare di ‘squadra’ e di un necessario recupero di posizioni politiche ben definite per ridare competitività alla Coalizione.

“Non sono Rudd”, aveva assicurato quando i colleghi gli avevano preferito, a due terzi del mandato, Turnbull. Ma due anni dopo è diventato come Rudd per ciò che riguarda le intenzioni (che rimarranno tali) di riprendersi la leadership e peggio di Rudd per ciò che concerne la tattica per farlo e la sua convinzione di avere le risposte per risollevare le sorti del partito. Tattica, che lo contraddistingue da sempre, di ‘demolitore’, con una capacità naturale di gettarsi a testa bassa a ‘fare la guerra’ a qualcuno a colpi di ‘slogan’, senza freni e compromessi.

La scorsa settimana, con la motivazione extra dell’inopportuna ‘confessione’ di Christopher Pyne al riguardo di una lotta interna tra moderati e conservatori, Abbott non si è risparmiato nei suoi attacchi, con tanto di presentazione di una specie di piano programmatico d’alternativa, costruito sulle basi di un duro conservatorismo.

Meno immigrati, taglio delle spese se non per difesa e infrastrutture, congelamento degli investimenti per le energie rinnovabili, status quo degli obiettivi ambientali, difesa dell’industria del carbone, controllo del Senato con opportuni emendamenti costituzionali con tanto di ‘ripensamento’, a 24 ore di distanza dalla presentazione del ‘manifesto programmatico’ che non verrà mai usato, sulla nuova flotta di sommergibili sposando la causa dei modelli (meno costosi perché già supercollaudati) a propulsione nucleare. Scusate se è poco. Sabato un’altra dose di “vi faccio vedere io come si fa”, con proposta revisione di selezione dei candidati del partito liberale per dare maggior voce agli iscritti. Soluzioni populiste per mettere sotto scacco One Nation e le aspirazioni dell’ex collega Cory Bernardi ora a capo degli Australian Conservatives Party, ma soprattutto un nuovo fronte di battaglia aperto nei confronti, più che dei laburisti dei quali sembra non curarsi, dei colleghi moderati all’interno di Partito (liberale) che, secondo Abbott, sta perdendo la sua identità.

Turnbull sa che è difficile contenere l’ex leader: non ha alcuna intenzione di offrirgli un posto in squadra per tenerlo buono e sa che non risponderebbe favorevolmente al ‘contentino tradizionale’ per i dissidenti di grido o i ‘silurati’ nel nome della causa, dell’incarico di prestigio lontano dall’Australia. Abbott, tra l’altro, ha già fatto sapere di non avere alcuna intenzione di abbandonare la politica. A questo punto, con il sedersi attorno ad un tavolo e ragionare fuori discussione, non resta che puntare sulla ‘vendita’ di quello che il governo sta facendo, scegliendo l’unica strada percorribile, quella che era stata indicata fin dall’inizio dal fondatore del Partito liberale, Robert Menzies (e che John Howard aveva più volte seguito con diligenza) del minimizzare le differenze con gli avversari dove il Partito è debole, ed evidenziarle dove il Partito è forte. La logica e la praticità prima dell’ideologia: perfetta quindi la scelta, considerando queste linee-guida, di blindare il Medicare per evitare un’altra campagna della paura, adottare i programmi laburisti nel campo della scuola e mantenere fede agli impegni presi per ciò che concerne l’assicurazione nazionale per le disabilità. Tolti tre assi dalla manica dei laburisti e tentativo di tracciare un netto e profondo solco di separazione nei campi dove la Coalizione ha qualche vantaggio storico, come economia e sicurezza. Ecco quindi le riduzioni di imposte per le piccole e medie imprese e il ribadire la campagna senza alcun abbassamento della guardia, anzi con tanto di severità aumentata, per profughi, visti e cittadinanza.

Massima attenzione per ciò che riguarda l’energia con intervento per assicurare le forniture di gas al Paese e, come il primo ministro ha scritto in un articolo pubblicato dai giornali del gruppo Murdoch in occasione del primo anniversario della sua vittoria elettorale, piano multidirezionale per cercare di contenere i prezzi delle bollette energetiche e allo stesso tempo continuare la lotta contro i cambiamenti climatici con nuovi investimenti negli impianti idroelettrici delle Snowy Mountains, nel solare e nell’eolico, senza per forza rinunciare al carbone.

Una risposta-slogan, giusto per non deluderlo, ad Abbott, senza mai nominarlo: “Questo è il tempo di chi costruisce e non di chi demolisce”, ha scritto Turnbull nel suo editoriale. “E’ il momento dei leader che fanno e non di quelli che solo parlano. E’ il momento di chi è capace di negoziare e ottenere risultati concreti, non semplicemente di puntare i piedi”. Obiettivo preciso, messaggio chiaro e personalizzato. Poi la promessa di continuare a lavorare, ascoltando e rispondendo alle necessità di 24 milioni di australiani, rispettando gli impegni presi alle urne.

Un messaggio senza fronzoli, rafforzato in una serie di interviste con le quali Turnbull ha anche fatto sapere che in caso di sconfitta (non ha parlato di sfide interne, ma non è sicuramente sfuggito ai colleghi l’avvertimento di un ‘pericolo suppletive’) abbandonerà immediatamente la scena politica. 

Intanto i sondaggi che non si muovono, nonostante gli sforzi di Turnbull e le esternazioni di Abbott abbinate alla fanciullesca euforia di Pyne, non possono che rallegrare Bill Shorten che, la scorsa settimana, non si è certo tirato indietro nel galvanizzare la sua squadra e, soprattutto, i ricchi e motivati sponsor della causa laburista. Al convegno della Confederazione nazionale dei sindacati (ACTU) ha promesso tutto quello che la nuova leader del movimento sindacale, Sally McManus e i suoi affiliati volevano sentire: “Daremo più voce ai lavoratori e toglieremo potere alle grandi compagnie, alle multinazionali”. Cavalcando l’onda Corbyn, all’insegna del popolare e populista “nell’interesse di tanti e non di pochi”, Shorten ha annunciato che nei primi cento giorni di un suo governo saranno cancellati i tagli, entrati in vigore il primo di luglio, agli indennizzi di straordinario per i turni di lavoro domenicale, aumenterà del due per cento l’imposizione fiscale sui salari superiori ai 180mila dollari l’anno e ci sarà il voto parlamentare sui matrimoni gay.

Il leader laburista ha parlato anche di una prossima implosione liberale e di tenersi pronto per  elezioni anticipate già ad agosto o settembre del prossimo anno per evitare le possibili conseguenze di ‘stanchezza elettorale’. Nei primi sei mesi del 2018 infatti sono in programma le elezioni nel Queensland, in Tasmania e nel South Australia, a novembre quelle del Victoria seguite, all’inizio del 2019, da quelle del New South Wales. Poi toccherebbe ai federali, una specie di campagna continua.