“Non hanno imparato proprio niente”, ha detto il primo ministro Scott Morrison scuotendo desolatamente la testa davanti alle telecamere mentre si trovava in Tasmania per la Conferenza statale del Partito liberale.

Si riferiva alle banche che non hanno risposto come il governo si aspettava all’ultimo taglio del tasso di sconto annunciato della Banca Centrale.

Lo 0,25 per cento in meno del costo del denaro è diventato solo lo 0,15 per cento per la National Bank e la Westpac, lo 0,14 per l’Anz Bank e lo 0,13 per cento per la Commonwealth Bank. E i politici possono strillare quanto vogliono, finché non reagiranno i clienti non succederà nulla.

La Commissione reale ha fatto il suo lavoro e le banche, dopo qualche imbarazzo e qualche inevitabile aggiustamento in termini di ‘condotta’ e rapporti col pubblico (non ci voleva molto dato che fino all’inchiesta in più di  qualche occasione sono andate ben oltre la legalità, per non parlare della moralità) sono ritornate ad agire con l’unico fine ultimo di fare i propri interessi. Morrison e il ministro del Tesoro Josh Frydenberg possono fingere tutta l’indignazione che vogliono e il leader dell’opposizione Anthony Albanese può anche inventarsi la campagna pubblicitaria per informare il pubblico delle alternative, con gli spot sulle banche ‘buone’ e quelle ‘cattive’, ma non cambierà nulla. E, comunque, non è che quel quarto di punto, intero o parziale, da passare ai clienti faccia una grande differenza.

La crescita stenta, è fragile, esposta anche al più piccolo contraccolpo di una situazione internazionale che - come ha detto il governatore della RBA Philip Lowe -,  è tutt’altro che trainante e la Reserve Bank sta facendo tutto quello che può fare, ma l’ultimo ribasso non farà quello che non ha fatto l’1 per cento di qualche mese fa. L’idea degli interessi  minimi per spingere le imprese a maggiori impieghi di capitale è sensata in astratto, molto meno nel concreto dell’Australia presente. La reazione auspicata, infatti, finora non c’è stata. E non sembrano avere avuto un grande effetto, ai fini del rilancio dei consumi, gli sconti fiscali entrati in vigore lo scorso luglio. D’altra parte era estremamente ottimistico illudersi che tutto poteva essere risolto in tempi brevi col semplice ricorso a quelle misure di alleggerimento tributario che il governo aveva promesso in campagna elettorale.

Una duplice delusione quindi, sia per Lowe sia per il primo ministro, questa riluttanza a seguire lo spartito tradizionale, con il giustificato allarme in più della frenata del commercio mondiale, per cui appare alquanto difficile contare su stimoli esterni per rilanciare l’economia.

Unico aspetto positivo immediato, in un’ottica australiana, il nuovo calo del valore del dollaro, in seguito all’intervento sui tassi d’interesse, che qualche aiuto extra lo darà sul fronte dell’export.

Lowe indubbiamente è preoccupato e lo ha fatto capire durante un suo intervento, sabato a Melbourne: lo spazio d’azione per ciò che riguarda gli stimoli monetari diventa sempre più ristretto e sembra inutile continuare con gli inviti al governo ad approfittare degli interessi minimi per aumentare le spese e anticipare i finanziamenti per nuove infrastrutture. Il governo non lo farà per due ragioni: la prima è che nelle due più grandi città d’Australia (Melbourne e Sydney) ci sono già tanti di quei cantieri aperti che non c’è la possibilità di aprirne degli altri per una effettiva mancanza di manodopera e di materiali; la seconda ragione del non intervento il governo non l’ammetterà mai, ma è strettamente politica. E’ legata alla ormai ultra-famosa promessa del budget in attivo. Siamo già arrivati praticamente al pareggio di gestione, in quanto i 690 milioni di passivo confermati qualche settimana fa per l’anno finanziario 2018-19, arrotondati in decimali, praticamente corrispondono a meno dello o,o1 del Pil, ma è l’impegno per l’attuale anno finanziario, quel famosissimo ritorno in attivo inseguito da più di un decennio, che lega le mani a Morrison e Frydenberg. Impossibile rinunciarvi senza perdere la faccia. Quindi si continua a tagliare in un momento in cui bisognerebbe essere un tantino più avventurosi e si ‘prega’ che gli aggiustamenti monetari siano sufficienti a tenere a galla l’economia: così, facendo finta di essere in controllo della situazione, Morrison e Frydenberg continuano a parlare di crescita, di un mercato del lavoro solido, di boom delle esportazioni, di ripresa dei prezzi delle abitazioni a Melbourne e Sydney. Le fondamenta dell’economia rimangono solide, insiste il ministro del Tesoro e parla di un ‘punto di svolta’ già raggiunto, di cui non è sicuramente al corrente Lowe che non nasconde, invece, le sue preoccupazioni per la scarsa fiducia dei consumatori, per gli investimenti che potrebbero aver bisogno di altri stimoli, per l’immobilità o quasi dei salari, per l’inflazione al di sotto dei valori ottimali tra il due e il tre per cento e la disoccupazione in aumento invece che in diminuzione (con l’eccezione del New South Wales).

Continua insomma la storia del bicchiere mezzo pieno visto dal governo e mezzo vuoto visto dagli economisti e, probabilmente, dal pubblico.

Con Melbourne e Sydney effettivamente sature dal punto di vista della possibilità di avviare nuovi grandi progetti infrastrutturali, chi sta dalla parte del governatore della Reserve vede l’opportunità di interventi strutturali nelle aree regionali: strade, linee ferroviarie, ponti e porti. Ma il ‘Sacro graal’ australiano della competenza economica, il ‘surplus’ più volte promesso e mai raggiunto da Wayne Swan, è ormai dietro l’angolo. Morrison e Frydenberg non vi rinunceranno a meno che non siano forzati da imprevedibili catastrofici (dal punto di vista finanziario) eventi internazionali, che diventerebbero l’alibi per poter fare quello che sanno che bisognerebbe fare, ma che in questo momento non possono fare.