CANBERRA - Il vice primo ministro Barnaby Joyce ha aperto le ostilità attaccando rinnovabili e ambientalisti per il ‘blackout’ energetico del South Australia di mercoledì scorso.

Il capo di governo Malcolm Turnbull è invece partito bene, ma poi si è lasciato un po’ prendere la mano, il leader dell’opposizione Bill Shorten è diventato talmente ripetitivo e scontato che rischia di farsi sentire molto meno dopo l’exploit della campagna che non ti aspettavi e il ministro dell’Energia e dell’Ambiente Josh Frydenberg ha dato l’impressione di essere l’unico ad essere capace di analizzare le cose, almeno in questo frangente, per quelle che sono.

South Australia al buio per diverse ore per colpa delle energie rinnovabili. Lezione da imparare, freno a mano da azionare per direttissima, carbone e gas insostituibili: Joyce è entrato a gamba tesa sul problema irritando un po’ tutti. Poteva risparmiarselo.

Il primo ministro per un attimo ha dato l’impressione di aver capito che non era il momento di politicizzare l’evento e ha fatto perfettamente il punto della situazione: “Se ti ritrovi bloccato in un ascensore, se manca la luce, se devi buttare tutto quello che c’è nel frigorifero perché non c’è la corrente, di tutto di preoccupi meno che di sapere quali sono le fonti di energia che sono venute meno, se sono eoliche, geotermiche, a carbone o gas. Quello che ti aspetti è la certezza di avere energia elettrica, sempre. Quella è la priorità di qualsiasi cittadino”.

Sicurezza, garanzie di servizio sottolineate e promesse prima di deviare verso il “rifiuto di scelte ideologiche” e puntare sulle “spinte eccessive” in certi Stati, come il South Australia, verso le rinnovabili, abbandonando per partito preso l’affidabilità di alcune fonti energetiche tradizionali, con tanto di affondo: “L’ideologia del rinnovamento energetico non può avere il sopravvento sulla logica, sulla necessità di assicurare sempre un servizio essenziale ai cittadini”.

Verdi indignati e Shorten che accusa subito Turnbull di scarsa coerenza: “Il capo di governo dovrebbe decidere esattamente cosa vuole essere, mantenendo una posizione precisa su qualche cosa per almeno dodici mesi”. “Era un convinto assertore della lotta ai cambiamenti climatici, ora sembra essere un burattino nelle mani della destra del partito”, ha affermato il leader laburista.

Eppure in questo caso il primo ministro ha ragione di frenare un po’ gli entusiasmi di alcuni Stati e di sostenere che gli obiettivi fissati dall’opposizione (entro il 2030 il 50 per cento del fabbisogno energetico affidato alle rinnovabili) non fanno i conti con le reali possibilità del paese sia per ciò che riguarda le spese a carico dei cittadini per sovvenzionare la decarbonizzazione energetica sia per ciò che  concerne la garanzia di servizio, che deve essere la priorità di qualsiasi tipo di cambiamento e che, per esempio, l’eolico, secondo gli esperti in materia, ancora non può offrire.

“Ridurre le emissioni è un obbligo morale e pratico, ma si dovrebbe lavorare su scala nazionale con uniformi certezze di affidabilità della rete”, ha suggerito Frydenberg. La crisi di mercoledì scorso ha evidenziato dei problemi di interpretazione del rinnovamento, che saranno affrontati dai vari ministri del settore energetico questa settimana in un summit d’emergenza convocato dal ministro federale che affronterà anche il tema, sollevato da un recente studio del Grattan Institute, dell’impatto degli obiettivi del solare e dell’eolico sulle tariffe energetiche (nel South Australia le più care del Continente).

 “Siamo tutti d’accordo di avere un futuro con meno emissioni, ma la priorità di qualsiasi governo deve essere quella di garantire elettricità a tutti i cittadini e alle industrie”, ha detto Frydenberg sintetizzando, come aveva fatto Turnbull, il “messaggio” del momento, senza ricamarci troppo sopra, ammettendo i limiti che ancora ci sono per ciò che riguarda l’eolico e la realtà dell’incubo vissuto dal South Australia, dovuto ad una tempesta senza precedenti che ha fatto crollare tralicci e, soprattutto, forzato l’interruzione del servizio garantita dall’allacciamento alla rete del Victoria, con la sua produzione ‘sporca’ degli impianti a carbone della La Trobe Valley.

Il buio totale di mercoledì infatti, a prescindere da quello che afferma Joyce, non è dovuto al fatto che il South Australia attinge a piene mani dalle energie rinnovabili (per il 40 per cento del suo fabbisogno), ma dall’interruzione del servizio dal Victoria dovuta, per l’appunto, alla caduta di alcuni tralicci per i forti venti e la messa in sicurezza del servizio da parte delle autorità preposte nei due Stati.

Che poi il SA sia più vulnerabile di altri Stati per questa spinta verso l’eolico, che sia un po’ considerato una specie di laboratorio di ricerca delle energie alternative e che non sia autosufficiente è indubbiamente vero, come è vero che la sua ambizione ad arrivare al 50 per cento di energia elettrica prodotta da vento e sole (il Territorio della Capitale punta al 100 per cento entro il 2030, ma ha la facoltà, in caso di necessità, di collegarsi alla rete del New South Wales e del Victoria) ha portato ad un enorme rincaro delle bollette e creato più di qualche difficoltà elettorale per il premier laburista Jay Weatherill.

Ha ragione quindi il ministro per l’Energia di insistere sulla necessità di  procedere per gradi, lanciando un avvertimento anche al premier del Victoria, Daniel Andrews, che si è impegnato a chiudere la centrale a carbone di Hazelwood che produce il 25 per cento dell’energia dello Stato, senza avere ancora un preciso piano di alternativa per ‘coprire’ adeguatamente quel quarto del fabbisogno.

Avanti quindi col ‘mix’, ma con un’azione congiunta a livello nazionale nel processo inarrestabile, e sicuramente necessario, di transizione dalle energie tradizionali a quelle alternative, sicuramente più pulite, ma al momento anche molto più costose e meno affidabili. Il blackout del South Australia dovrebbe semplicemente servire da lezione, per capire esattamente lo stato delle cose, i problemi da affrontare che, come suggerisce lo studio del Grattan Institute, alla fine si possono sintetizzare con tre, dopotutto semplici, ‘soluzioni’: la prima riguarda una revisione delle strategie nazionali per la lotta ai cambiamenti climatici, con il varo di un piano d’azione supportato dagli Stati in collaborazione con le aziende produttrici di energia; il secondo punto riguarda invece una ‘comprensione del mercato’ e un programma per assicurare la continuità dell’erogazione di energia e il contenimento dei costi; terza cosa essenziale spiegare ai cittadini la transizione per arrivare ad obiettivi uniformi di decarbonizzazione, che hanno come rovescio della medaglia un inevitabile incremento delle spese energetiche.