Otto giorni dopo l’ammissione della sconfitta con una telefonata a Malcolm Turnbull. Un altro bel gesto da parte di Bill Shorten (dopo il tour intorno all’Australia per ringraziare gli elettori) prima di indire una conferenza stampa per annunciare pubblicamente che i numeri, anche se i conteggi non sono ancora ultimati in cinque seggi, danno ragione alla Coalizione, che Turnbull ritornerà alla guida di un governo che probabilmente non sarà di minoranza.
Qualche ora dopo la conferenza stampa del leader liberale che, con altrettanto stile, ha raccontato degli auguri estremamente apprezzati di Shorten, che avrebbe anche anticipato le sue intenzioni di lavorare costruttivamente con la nuova amministrazione.
A questo punto resta solo da sapere esattamente l’entità della vittoria: se va bene fino in fondo, secondo quanto traspare dai conteggi in corso dei voti postali, la Coalizione finirà con 76 o 77 seggi.
Altrimenti dovrà appoggiarsi agli ‘indipendenti’ (Bob Katter del Katter’s Australian Party, Cathy McGowan e Andrew Wilkie) che hanno già offerto la loro disponibilità a sostenere, almeno per ciò che riguarda i criteri-base della fiducia e dell’accesso ai fondi di gestione, un governo Turnbull.
Finalmente, dopo nove torride settimane, una giornata di serene riflessioni su quello che è stato, ma soprattutto su quello che si cercherà di fare nell’interesse della nazione. Uno scambio a distanza di complimenti dopo mesi di scontri, critiche, accuse, senza risparmio di energie e del ricorso di qualche colpo basso che, in futuro, sarebbe il caso di proibire come il messaggio personalizzato studiato dai guru della nuova politica ‘all’americana’, magari non del tutto onesto nei contenuti, che arriva via telefonate o sms ‘ufficiali’, che ufficiali non sono, fino alle urne.
Turnbull e Shorten provati, ma contenti perché sono due sopravvissuti. Hanno superato in maniera diversa due complicatissime sfide e sono rimasti al loro posto, il primo giusto aggrappato alla sua posizione, ma di maggior prestigio, il secondo guadagnandosi una conferma a pieni voti che ha momentanemaente spento qualsiasi velleità di leadership di Anthony Albanese e Tanya Plibersek. Giustificata quindi la loro soddisfazione, ma non è il caso di esagerare guardando a quello che è successo: Turnbull non può essere contento di come è andata sabato 2 luglio e Shorten ha dato l’impressione di celebrare, un tantino al di sopra dei quanto era lecito aspettarsi, una sconfitta. Bella campagna, bella ripresa laburista, ma alla fine nessuno gareggia per perdere.
Dopo un lentissimo scrutinio dei voti, in alcuni seggi all’insegna del ‘più piano non si può’, Turnbull ce l’ha dunque fatta, mentre per avere un quadro definitivo del Senato si potrebbe anche arrivare a metà agosto. Si sa comunque che sarà incredibilmente ‘vario’, mettendo in evidenza l’insoddisfazione generale nei confronti dei due maggiori partiti e un certo bisogno di nuovi spazi nello spettro politico nazionale che liberali e laburisti non riescono più a coprire. Almeno non come vorrebbero gli australiani. A ‘sinistra’ una mini-scissione c’è già stata, grazie al graduale riposizionamento politico dei verdi che, specialmente negli ultimi anni, sono diventati un po’ meno concentrati sull’ambiente e un po’ di più sul sociale, sul modo di combattere le crescenti diseguaglienze, attirando le simpatie degli elettori determinati a fare un passo più in là del riformismo, che considerano a volte troppo blando, dei laburisti.
A "destra" ci sono sempre state due anime che hanno, dalle origini, cercato e trovato nel Partito liberale un certo equilibrio, quella moderata e quella più conservatrice. Il solco fra le due però si sta facendo sempre più ampio creando inquietudini interne e qualche fuga verso altri spazi, ancora più radicali, come quelli offerti da One Nation di Pauline Hanson - che in questa tornata elettorale ha fatto il pieno di voti, offrendo le risposte semplici e dirette che una parte dell’elettorato si aspetta su islamici ed immigrazione in generale, matrimoni gay e posti di lavoro via una certa dose di protezionismo (che anche a sinistra non si disdegna) – e, sotto alcuni aspetti, anche da Jacqui Lambie, Family First e i Christian Democrats di Fred Nile.
Le ultime elezioni hanno solamente confermato quella che ormai pare una tendenza, sempre più diffusa, di cercare sbocchi politici diversi da quelli tradizionali della contrapposizione, che sembra avere fatto il suo tempo, tra laburisti e liberali.
Una sorta di crisi parallela sta quindi attanagliando sia la ‘destra’ che la ‘sinistra’ della politica australiana, finendo col dare spazio a movimenti, partiti o singoli individui con un’agenda populista che colpisce l’attenzione di un elettorato che, non riconoscendosi più nelle forze politiche tradizionali (con l’eccezione dei nazionali che continuano a difendere il loro territorio), si rifugia in opzioni più facilmente comprensibili con un limitato piano d’azione, molte volte addirittura monotematico. Una reazione ed un’attenzione spesso più umorali che ragionate che diventano protesta che cambia di volta in volta.
Una nuova realtà che non è sicuramente positiva, almeno per ciò che riguarda la stabilità che andava di moda da sempre in Australia, che allontana più che avvicinare il pubblico alla politica facendo diminuire la qualità del dibattito e di chi lo conduce.
Se il risultato delle elezioni di due sabati fa non è ancora chiaro al 100%, è sicuramente chiaro che: il governo Turnbull ne esce terribilmente indebolito, tormentato da divisioni interne e un grado di scontentezza senza precedenti; il sistema politico australiano è estremamente frammentato; la comunità finanziaria internazionale ha tutto meno che fiducia in un Paese che non offre più certezze e che non potrà quasi sicuramente procedere con passo sicuro sui fronti del rientro delle spese, delle riforme e della riduzione del debito.
Ieri Shorten ha anticipato ‘collaborazione’, ma anche tempi duri per Turnbull ‘costretto’ a fare i conti con una destra insoddisfatta che lo marcherà stretto riducendo la sua libertà d’azione. Un’apertura comunque al dialogo che, con un po’ di coraggio e visione su entrambi i fronti politici, potrebbe portare ad una nuova fase della politica australiana permettendo a governo e opposizione di trovare, almeno su alcuni temi, le soluzioni migliori per il paese. Scott Morrison potrebbe fare la prima mossa, per esempio riaprendo, anche in virtù di quel quasi 50 a 50 (su base bipartitica) uscito dalle urne, il discorso del negative gearing. Prima dell’inizio della campagna, il ministro del Tesoro aveva parlato di possibili correzioni del sistema di sgravi fiscali sugli investimenti immobiliari, ma poi la politica aveva avuto la meglio ed era stato eretto un muro non negoziabile. Ora che la partita è stata giocata, si potrebbe riparlarne costruttivamente invitando al tavolo delle trattative Shorten e Chris Bowen. Lo stesso si potrebbe fare con la Superannuation: assoluta necessità di correzioni, non retroattive, e assoluta necessità di una formula bipartisan che offra certezze a lungo termine. Ideale sarebbe poter discutere, ora che è momentanemente passato il tempo dell’opportunismo e delle paure, anche di Medicare. I problemi di costi ci sono e sarebbe il caso di trovare una soluzione equa per non arrivare ad una crisi del sistema: la cosa più ovvia, senza che nessuno gridi allo scandalo e si cominci inutilmente a parlare di nuove tasse, sarebbe quella di aumentare la trattenuta dell’uno o due per cento come suggerito dal suo idetaore, il Dr John Deeble e dal presidente dell’AMA Michael Gannon. Chi guadagna di più, paga di più nell’interesse di tutti.
Liberali e laburisti seduti allo stesso tavolo? Altamente improbabile, ma sperare che, almeno qualche volta, il buonsenso possa avere la meglio anche in politica non costa nulla e c’è un ben augurante inizio: sia Turnbull che Shorten ieri hanno parlato favorevolmente del voto elettronico, perché “è assurdo – hanno detto – che ci vogliano otto giorni per conoscere l’esito di un’elezione”.