Quando non gira dalla parte giusta, c’è poco da fare. Scott Morrison sabato a Sydney ha pensato bene di porgere il suo saluto in mandarino ad una ‘fan’ che gli aveva chiesto un selfie. “Ni han”, ha detto il primo ministro con un largo sorriso. “Sono coreana” è stata la risposta divertita. Niente di grave ovviamente, forse semplicemente la fotografia di quello che sta succedendo: il capo di governo ci prova, ma il suo destino politico sembra segnato. La storia si sta ripetendo a parti invertite: sei anni dopo, gli australiani sembrano aver già deciso di cambiare e, come nel 2013, senza alcun entusiasmo, più per ‘punire’ errori e divisioni che per abbracciare nuove idee e possibilità. Bill Shorten insomma ha buonissime possibilità di diventare primo ministro, come è successo a Tony Abbott, più per demeriti altrui che per meriti propri.

Un governo logorato da anni di conflitti interni chiamato a difendersi dall’assalto di un’opposizione che ha avuto il merito di compattarsi dietro al proprio leader nonostante, a livello personale,  non sia un campione di popolarità. Le divisioni pesano e Shorten intende ricordare, ogni volta che avrà occasione di farlo nei prossimi 33 giorni di campagna, quello che è successo negli ultimi sei anni in casa liberale: tre primi ministri, spietate rivalità puntualmente messe in vetrina, vendette e lunghi periodi di paralisi decisionale dovuti, per l’appunto, a interessi personali che hanno avuto la meglio sugli interessi della nazione. Niente di diverso di quello che è successo in casa laburista tra il 2007 e il 2013 con la saga Rudd-Gillard-Rudd.

Per la sfida alla Camera comunque si parte con una Coalizione a quota 72 seggi, gli stessi dei laburisti (dopo l’aggiustamento in base ai nuovi confini elettorali e la creazione dei due nuovi collegi di Bean nel Territorio della Capitale e Fraser nel Victoria), quattro indipendenti, un verde, un rappresentante del Katter’s Australia Party e uno del Centre Alliance. E si parte anche con due leader poco carismatici, figli dell’apparato di partito, entrati in Parlamento nello stesso anno (2007) con agende programmatiche che non creano particolari entusiasmi.

Morrison, infatti, chiede semplicemente continuità e riconoscimento per una presunta superiorità per ciò che riguarda la competenza economico-finanziaria e già ieri, in Queensland, ha puntato dritto sulla ‘capacità’ della Coalizione di creare impiego, promettendo altri 250mila posti di lavoro per i giovani tra i 15 e i 24 anni. Shorten, da Sydney, ha rilanciato la fortunata campagna del 2016 del “Mediscare’, assicurando che i liberali, quando si tratta di sanità non deludono mai. Secondo le previsioni di spesa, sostiene il leader dell’opposizione, nel 2020 i finanziamenti federali per gli ospedali subiranno un taglio del 5 per cento, pari a 2,8 miliardi nell’arco di cinque anni. E poi via con la ‘traduzione’ in termini pratici della riduzione di investimenti di un governo di Coalizione: la possibilità (che non ci sarà) di impiegare 1931 dottori in più all’anno per sei anni o 695 posti letto ogni anno nello stesso arco di tempo.

Annuncio sostenuto con grande convinzione dal premier del Victoria, Daniel Andrews che si è impegnato a spendere un milione di dollari in pubblicità per denunciare i tagli federali per gli ospedali dello Stato e gli scarsi investimenti nei campi delle infrastrutture e dei trasporti. Andrews ha respinto le accuse di un uso improprio di fondi statali a sostegno della campagna laburista federale, parlando di una decisione che fa parte del suo lavoro e del suo impegno affinché il Victoria riceva la giusta attenzione e le giuste risorse da Canberra. Il premier, ieri mattina, ha anche apertamente appoggiato l’iniziativa di Shorten di arrivare ad un co-finanziamento al 50 per cento delle spese ospedaliere tra le amministrazioni federale e statali, augurandosi che anche la Coalizione possa offrire la stessa ripartizione delle responsabilità finanziarie o addirittura alzare la posta.

Un’altra complicazione per il primo ministro che ha ben poco di nuovo da raccontare e offrire, mentre il suo avversario sta praticamente correggendo e migliorando, la campagna del 2016: stessi temi, stessi collaudati programmi di ‘riforme’ fiscali all’insegna di una presunta maggiore equità sociale. Niente di ‘rivoluzionario’, niente che entusiasmi particolarmente le folle, ma abbastanza da poter diventare solo il sesto leader dell’opposizione laburista a vincere una tornata elettorale dopo Andrew Fisher, James Scullin, Gough Whitlam, Bob Hawke e Kevin Rudd. 

Shorten non ispira, ma ha sicuramente il polso della situazione perché la sanità è effettivamente il tema ‘clou’ della campagna appena iniziata, dato che una recentissima ricerca dell’Australian Future Project e Roy Morgan mette la qualità dei servizi sanitari e ospedalieri in cima della lista dei desideri degli elettori di tutte le fasce di età: dagli ultrasettantenni alla cosiddetta generazione Z (dai 18 ai 28 anni). E la Coalizione indubbiamente in questo settore parte con un ricorrente handicap, che cerca di colmare insistendo sul suo leitmotiv elettorale: senza un’economia solida tutto diventa relativo, perché non ci sono soldi né per ospedali, né per scuole e non si creano nuovi posti di lavoro.

Le linee di battaglia sono dunque delineate e i laburisti, mettendo in evidenza una calcolata attenzione ad umori popolari, immagine e dettagli, hanno scelto per la loro offensiva una prima linea di grande impatto e sicuro seguito: già nei primi giorni di campagna è infatti evidente la strategia ‘populista’ di affiancare a Shorten, Kristina Keneally, Tanya Plibersek e Penny Wong. Tre donne per spiegare i programmi, attaccare il governo facendo risaltare la ‘superiorità’ dei laburisti in fatto di presenza femminile di grande qualità ed esperienza nel loro schieramento. Una scaltra scelta tattica che punta sia su sostanza che immagine. In prima linea a fianco di Morrison invece Josh Frydenberg, Mathias Cormann e Simon Birmingham.

Sulla carta i giochi sono fatti: da una parte un governo che annaspa e si aggrappa disperatamente a conti in ordine (che in ordine veramente ancora non sono per ciò che riguarda il famoso ritorno in attivo) e alla disoccupazione scesa al cinque per cento. Dall’altra parte un leader che da l’impressione di camminare spedito verso la Lodge promettendo più tasse, a suo dire, per chi se le può permettere e meno per la maggioranza dei cittadini, la vastissima fascia medio-bassa dell’elettorato (più o meno la stessa offerta della Coalizione, anche se i tempi di introduzione degli sgravi sono diversi),  più soldi per scuole e ospedali, e un programma energetico confezionato da Frydenberg e regalato da Morrison che, in questo campo, ha scelto la tattica del ‘parliamone meno possibile’ avendo a disposizione scarsissime munizioni.

Shorten come Abbott (ma con il leader laburista che a differenza dell’ex pm i programmi, che piacciano o non piacciano, li ha) pronto a diventare primo ministro perché ha di fronte un governo che sembra aver perso  la fiducia degli elettori. Non tragga infatti in inganno il recente successo liberale nelle statali del NSW, il 18 maggio, a livello nazionale, è più probabile un risultato in stile Andrews (nel Victoria) piuttosto che in stile Berejiklian.