La partenza anticipata da Nauru degli ufficiali del dipartimento dell’Immigrazione Usa che stavano svolgendo i colloqui con i richiedenti asilo destinati agli Stati Uniti ha sollevato nuovi dubbi sul futuro dell’accordo tra Canberra e Washington per il ricollocamento dei rifugiati rinchiusi nel centro di detenzione extraterritoriale con l’accusa di aver tentato di raggiungere l’Australia illegalmente.

“Gli ufficiali statunitensi sarebbero dovuti restare fino al 26 luglio ma sono partiti venerdì” ha detto un rifugiato residente a Nauru all’agenzia Reuters, chiedendo che la sua identità non venga svelata per paura di compromettere la sua domanda di ricollocamento. Sabato, il Servizio Immigrazione e Cittadinanza (USCIS) del dipartimento di Sicurezza nazionale degli Stati Uniti ha assicurato la continuazione dell’accordo con l’Australia, senza offrire però ulteriori dettagli.

Anche il ministro degli Esteri Julie Bishop, intervenuta ieri alla trasmissione Insiders della ABC, hanno assicurato che il patto resta intatto, dicendo che il suo governo ha ricevuto rassicurazioni in merito sia da parte del presidente Trump che del suo vice Mike Pence. “Gli Stati Uniti, come l’Australia, ha una quota annuale per l’accoglienza dei rifugiati – ha ricordato Bishop -. Da quello che so, la quota per quest’anno è stata raggiunta e si ripartirà dal 1° ottobre. Non ho dubbi che l’accordo andrà avanti come ci hanno confermato le autorità statunitensi competenti stamattina (ieri, ndr)”.

La partenza degli ufficiali è avvenuta proprio all’indomani dell’annuncio da parte di Washington del raggiungimento della quota prevista di 50.000 rifugiati all’anno. Un conteggio che si azzererà solo all’inizio del nuovo anno fiscale, il 1° ottobre. Ma se lo stop nelle procedure di ricollocamento fosse appunto dovuto a questo, c’è un forte rischio che il governo australiano non sarà in grado di mantenere la promessa di chiudere l’altro centro di detenzione extraterritoriale a Manus Island entro il 31 ottobre. Finora, solo 70 rifugiati, meno del 10% di quelli nei campi, hanno completato le procedure richieste dagli Usa.

Tuttavia, nonostante le crescenti incertezze, i preparativi per la chiusura di Manus Island continuano. Alcune sezioni sono già state chiuse e i detenuti trasferiti, la palestra del centro ha chiuso i battenti e le utenze come luce e acqua sono state staccate.

Lo scorso anno, Canberra aveva stretto un accordo con l’ex presidente Usa Barack Obama al fine di trovare una sistemazione alternativa negli Stati Uniti a 1250 richiedenti asilo, in cambio dell’impegno ad accogliere in Australia rifugiati dal Costa Rica. Un primo intoppo per questo ‘scambio di rifugiati’ era arrivato con l’elezione di Donald Trump che, nei mesi scorsi, aveva pubblicamente definito “stupido” l’accordo, usando toni ancora più negativi nel corso di una telefonata privata con il primo ministro Malcolm Turnbull, in cui lo additava come il “peggior accordo di sempre”. Alla fine, la crisi diplomatica era rientrata, con il capo della Casa Bianca che si era impegnato a mantenere i patti in nome della lunga amicizia con l’Australia.

Uno degli obiettivi principali dello ‘scambio di rifugiati’ con gli Stati Uniti è quello di far sì che il governo australiano riesca a chiudere il prima possibile i centri di Manus Island e Nauru, criticati a livello internazionale per il trattamento dei detenuti (7 richiedenti asilo sono morti nei due centri del Pacifico) e costosissimi da mantenere. Seppur in netto calo dall’1,1 miliardi del 2014-15, infatti, i centri ‘offshore’ continueranno a costare un totale di 714 milioni nel 2017-18.

Dopo il nuovo ‘alt’ nelle procedure di ricollocamento, il portavoce laburista alla Difesa, Richard Marles, ha criticato la scelta del governo Turnbull di “mettere tutte le uova in un solo paniere” e di non aver previsto altre soluzioni, in caso l’accordo con Washington non dovesse tenere. “Devono prendere in considerazione diverse altre opzioni per assicurare che sia possibile dare speranza e futuro alle persone che si trovano in quelle strutture” ha affermato Marles alla ABC, sottolineando l’importanza per il governo di essere più attivo nonostante la promessa americana di portare a compimento l’accordo.

“Qualsiasi critica da parte dei laburisti in materia di protezione dei confini e ricollocamenti è ridicola” è stata la sprezzante risposta del ministro degli Esteri, che ha ripetuto come sia colpa delle deboli politiche dei precedenti governi laburisti se l’Australia si trova a dover affrontare i problemi odierni in tema di richiedenti asilo.

Julie Bishop ha ‘schivato’ anche la domanda di come si sposerebbe un eventuale (ormai quasi certo) seggio dell’Australia nel Consiglio Onu dei Diritti Umani con le critiche ricevute dalle Nazioni Unite per il trattamento dei richiedenti asilo nei centri di Nauru e Manus Island. “Lavoriamo con i governi di Nauru e Papua Nuova Guinea per far sì che le persone che si trovano in stato di detenzione, perché hanno pagato trafficanti per provare a venire in Australia, possano godere delle libertà fondamentali, abbiano accesso ai servizi e al sostegno che ci si aspetta da Paesi come PNG e Nauru. L’Unhcr e il governo australiano hanno continua supervisione sull’operato di questi governi”. “Questo è il risultato del fallimento delle nostre leggi sulla protezione dei confini da parte dei precedenti governi laburisti” ha accusato ancora una volta il ministro, dicendo che l’Australia è pronta ad accogliere i rifugiati che fanno domanda di asilo in modo legale.

No comment anche sulla (inappropriata) battuta pronunciata da Trump durante la visita a Parigi nei confronti della moglie del presidente francese Emmanuel Macron. “È in gran forma” ha detto più volte il presidente Usa alla ‘première dame’. “Mi chiedo se lei potrebbe dire lo stesso di lui” è stata l’unica frecciatina lanciata da Julie Bishop durante l’intervista alla ABC, che ha mantenuto altrimenti un fare assolutamente diplomatico. Con gli Stati Uniti, d’altra parte, specialmente in questo momento, l’Australia non può che permettersi di mantenere una salda amicizia.