È stato sicuramente altrettanto esplicito nel faccia a faccia alla Casa Bianca. Anche perché, nonostante la strategia delle ‘azioni e reazioni’, Donald Trump sa che la guerra commerciale con Pechino può arrivare solo fino ad un certo punto e che l’espansione della Cina nel sud-est asiatico deve essere mantenuta sotto controllo. Il primo ministro Scott Morrison, già venerdì scorso, alla vigilia della cena di gala in suo onore alla Casa Bianca, tredici anni dopo quella che George Bush Jr aveva riservato a John Howard, aveva parlato abbastanza chiaro per ciò che riguarda la necessità di ‘governare la globalizzazione’, sottolineando che il lavoro di un australiano su cinque dipende dal libero mercato e che la collaborazione a livello internazionale, è più essenziale che mai per mantenere l’ordine globale.

L’ha detto davanti ad una platea che includeva il vicepresidente Mike Pence e il Segretario di Stato Mike Pompeo. Una ferma presa di posizione contro i populismi isolazionisti, un messaggio rivolto agli Usa ma soprattutto, con diplomatica attenzione al significato di questa visita, anche a Pechino.

La Cina è infatti al centro della dieci giorni a stelle e strisce di Morrison: sia il primo ministro che il presidente Usa si rendono perfettamente conto che al di là dello show, delle bandiere, dei tappeti rossi, dei picchetti d’onore, delle divise, dello squillare di trombe davanti a flash e telecamere, delle cose insomma che l’America sa probabilmente fare meglio di qualsiasi altra nazione al mondo, c’è la realtà della necessità di mantenere aperti i canali commerciali con la nazione che ha maggior peso sul Pianeta dal punto di vista degli scambi in entrata e in uscita e, allo stesso tempo, di mantenere un occhio vigile sull’altrettanto chiara realtà del ruolo che la Cina intende avere sullo scacchiere economico e militare globale .

Pechino insomma in questi giorni è sicuramente con le antenne ben alzate su quello di cui si parla, e si è già parlato, a Washington, ma soprattutto ben attenta a quello che Morrison e Trump si sono detti a riflettori spenti (anche se con il presidente americano è sempre difficile garantire che certe considerazioni ‘private’ non vangano rivelate in qualche più o meno improvvisata conferenza stampa).

A tutto volume, dal balcone, dal salotto dello Studio Ovale e dal giardino della Casa Bianca, fra brindisi e strette di mano, si è parlato di una relazione di sincera amicizia e di un’ultra-provata collaborazione a tutti i livelli fra due Paesi che, come ha sottolineato Trump, si muovono da sempre esattamente sugli stessi principi e valori.

 Al centro dei colloqui tra il sempre imprevedibile presidente Usa e l’uomo che ha definito ‘di titanio’, andando oltre quindi all’uomo ‘d’acciaio’ che Bush aveva riservato a Howard, non gli indiscutibili legami tra le due nazioni dal punto di vista della Difesa, della ‘fedeltà’, dell’inossidabilità della partnership politica e commerciale, ma l’approccio dei rapporti con Pechino.

Trump insiste sull’imposizione di dazi per forzare la mano alla Cina e arrivare a una nuova intesa che, assicura, porterà benefici anche all’Australia. Morrison si guarda bene dall’appoggiare pubblicamente la linea dura, senza però contestarla.

Ospite di riguardo (prima di lui solo al presidente francese Emmanuel Macron era stata riservata una cena di Stato alla Casa Bianca alla presenza dell’élite politica e imprenditoriale Usa) di un’amministrazione che insiste sul principio, elettoralmente vincente dell’America First, ma che sotto sotto si rende perfettamente conto della necessità del “multilateralismo efficace” che inevitabilmente passa anche per Pechino, il primo ministro adotta la tattica del consenso di principio su ‘pericoli’ e possibili correzioni, ma del realismo di una relazione che va mantenuta e difesa nell’interesse non solo dell’Australia, ma dell’intero mondo globalizzato.

Washington e Canberra parlano e Pechino ascolta, perché oggi più che mai i rapport tra l’Australia e la Cina sono tesi a causa dei profondi sospetti che caratterizzano le relazioni bilaterali. Il governo Morrison denuncia ormai da diversi mesi (ma le accuse risalgono al periodo in cui c’era Turnbull alla Lodge) possibili gravi ingerenze cinesi nella politica australiana e nella sua economia, ricorrendo a toni e argomentazioni che ricordano molto quelli riservati, negli Usa, alla Russia dopo l’elezione di Trump.

La Cina è stata ripetutamente accusata dalla politica e dai media australiani di aver sostenuto economicamente anche, ma non solo, nelle ultime elezioni candidati politici locali, di aver esercitato influenze e restrizioni sulla stampa locale in lingua cinese e di aver spiato gli studenti cinesi in Australia.

Alla fine dello scorso anno il governo aveva presentato una serie di norme tese a contenere le influenze straniere sulla politica, che prevedono, tra le altre cose, un registro dei soggetti impegnati in attività lobbistiche. La questione dei legami della deputata del seggio di Chisholm, Gladys Liu, rientra nel contesto di sospetti, velate accuse, indagini su possibili infiltrazioni di Pechino a tutti i livelli della politica australiana.

Si cammina insomma sul filo del rasoio tanto che lo stesso Morrison qualche settimana fa aveva cercato di mitigare le accuse abbastanza dirette lanciate dal deputato del Western Australia, che fa parte della Commissione di Intelligence, Andrew Hastie sulle mire espansionistiche della Cina nella regione del Pacifico. Il primo ministro quindi costretto anche a Washington a evitare inutili nuove frizioni, ben sapendo il valore ‘pratico’ dei rapporti con Pechino. La Cina è il primo partner commerciale di Canberra e la prima destinazione delle sue esportazioni.

Gli Stati Uniti, invece, mantengono il primo posto tra i partner d’investimenti dell’Australia con oltre 100 miliardi di dollari annui, anche se la Cina segue ormai da vicino al secondo posto con investimenti per circa 90 miliardi di dollari, stando a un rapporto di Kpmg, la multinazionale dei servizi finanziari.

Morrison si rende perfettamente conto degli equilibri precari economici e strategici in cui si trova l’Australia. Meglio quindi parlare piuttosto di Iran, senza prendere altri impegni dal punto di vista militare per difendere il transito commerciale nello Stretto di Hormuz, lasciando a Trump la ‘responsabilità’ di lasciarsi andare con vaghe considerazioni ‘nucleari’ per risolvere una crisi che potrebbe aggravarsi in qualsiasi momento e concentrarsi su future missioni spaziali che dovrebbero riportare l’uomo (anzi questa volta dovrebbe trattarsi della prima donna) sulla luna nel 2024. Ecco quindi che dalla sede della Nasa il primo ministro ha annunciato stanziamenti straordinari per l’Agenzia spaziale australiana. Massima prudenza insomma, perché anche all’estero è imperativo non perdere mai i contatti con le necessità di casa.