Chiusa la settimana più lunga e prevedibile, quella dei famosi trenta sondaggi negativi. Parzialmente riusciti i diversivi, studiati a tavolino, del dibattito sui numeri dell’immigrazione e del rilancio del programma energetico, in vista del vertice con i leader statali per concordare un piano nazionale che offra le necessarie garanzie a chi investe nel settore e ai cittadini in generale per ciò che riguarda prezzi e servizio.
Malcolm Turnbull vuole voltare pagina dopo che il traguardo che ha malauguratamente fissato per giudicare l’operato di Tony Abbott è stato eguagliato Ora è d’obbligo concentrarsi sul futuro mettendo da parte, rancori, rivalità, vendette. Così almeno si augurano i collaboratori più stretti del primo ministro che cercano di dare una lettura ottimistica anche agli ultimissimi rilevamenti negativi: il distacco dai laburisti è rimasto inalterato (48 a 52 su base bipartitica) come il vantaggio, a livello personale, di Turnbull su Bill Shorten. Il leader dell’opposizione continua a non piacere e convincere, e il ritardo della Coalizione è rimontabile, sostengono i fedelissimi del capo di governo e gli strateghi liberali. E, a sostegno del loro ottimismo, ricorrono ad un pezzo di storia. Una zattera alla quale aggrapparsi per riprendere fiato, tirarsi su il morale e cercare di convincere se non tutti quanti più possibile a remare nella stessa direzione, ponendo fine a critiche, avvertimenti e addirittura ultimatum in stile Joyce (getto della spugna prima di Natale per il leader liberale se non si registra alcun miglioramento sul fronte dei sondaggi).
Nonostante le voci, gli immancabili posizionamenti e le puntuali risposte sibilline a proposito della leadership, la verità è che, al momento, reali alternative a Turnbull non ci sono. Nessuno dei presunti candidati d’alternativa sembra essere in grado di dare uno scossone positivo alla Coalizione: Tony Abbott ha lo stesso indice di credibilità e popolarità che aveva quando è stato erroneamente (facendo esattamente quello che i laburisti avevano fatto con Rudd, puntando sul candidato ‘popolare’ senza chiedere permesso agli elettori) scalzato; Julie Bishop non è Julia Gillard e abbiamo comunque visto come è finita con la ex vice leader laburista una volta che si è messa al servizio dei golpisti; Peter Dutton interessa solo ai conservatori più conservatori, che sono la minoranza all’interno del partito e della nazione; Josh Frydenberg piace perché riesce a non esagerare nei commenti e negli attacchi agli avversari, esattamente come faceva Turnbull quando aveva illuso un po’ tutti, quindi con lui nessun effetto-scossa ma un altro esperimento; Scott Morrison politicamente ha perso parecchio smalto una volta passato al Tesoro e non dà certo l’impressione di poter offrire chissà quale cambiamento di direzione.
Turnbull quindi per ora resta e più di qualcuno si augura che in qualche modo la storia si ripeta: nel 1998, a tre mesi dalle elezioni, John Howard viaggiava ad un livello di popolarità inferiore a quello registrato dall’attuale primo ministro e il voto primario dei liberali era al di sotto di quello che è al presente. E a complicare tutto c’era in ballo anche l’idea della Gst, la stessa riforma fiscale che, nel 1993, aveva fatto perdere a John Hewson le “elezioni impossibili da perdere” contro Paul Keating.
Howard però non doveva fare i conti con turbolenze interne e Peter Costello era un fedelissimo e talentuoso braccio destro: due solidi punti di partenza per una rimonta che l’allora leader aveva confezionato puntando soprattutto sulla massima ‘disciplina’ sia per ciò che riguardava il programma elettorale che la ‘vendita’ del programma stesso, stabilendo e mantenendo una linea aperta col pubblico, modellando e limitando entro i parametri della fattibilità le aspettative.
A suo enorme vantaggio Howard aveva anche una notevolissima esperienza politica e godeva del rispetto incondizionato dei suoi colleghi. Non c’era, inoltre la necessità giornalistica di dover sfornare notizie a raffica per soddisfare le esigenze dell’informazione (si fa per dire) continua: 24 ore su 24 da riempire con qualcosa di diverso, qualunque cosa pur di suscitare un attimo di attenzione, qualsiasi commento, ancora meglio se controverso, anche dei più marginali personaggi sulla scena politica. Un susseguirsi di dichiarazioni, spesso inutili o capaci di dare un’immagine distorta di quello che governo e opposizione intendono veramente fare, con la susseguente necessità su entrambi i fronti politici di correggere, spiegare, garantire, creando un clima di incertezza e inaffidabilità.
Guardandosi indietro, alle esperienze del 1998, ma anche del 2001 e 2004, il tempo per recuperare c’è in casa liberale, ma non certo procedendo con l’attuale approccio minimalista, all’insegna dell’avanti piano per non irritare qualcuno a destra o a sinistra. Continuando sulla strada dei rischi minimi, Shorten può davvero rimanere tranquillamente alla finestra, aspettando il suo turno alla Lodge.
Qualche paletto ben preciso da piantare, qualche decisione coraggiosa e ferma da portare avanti fino in fondo, con il budget come trampolino di lancio. Poi, quando sarà il momento (l’opzione di fine anno non è sicuramente da scartare in caso di bilancio ‘positivo’), campagna ‘minima’ per mantenere alta l’attenzione del pubblico e non finire in riserva di idee e fondi come è successo alla squadra Turnbull nel 2016 (otto lunghissime settimane impossibili da riempire con contenuti diversi ed immutato entusiasmo).
Rimonta non facile, ma possibile anche se ci sono diverse importanti varianti che complicano ogni cosa, comprese le previsioni: un ‘clima politico ostile’ con gli australiani che, come i cittadini della maggior parte del mondo industrializzato, hanno meno fiducia e simpatia di sempre per la classe politica in generale; indici di popolarità degli attuali leader che dovrebbero far riflettere entrambi i maggiori partiti su come sono caduti in basso (il livello netto di gradimento di Howard al momento della sconfitta del 2007 era superiore a quello attuale sia di Turnbull che di Shorten) e all’interno della Coalizione truppe sparse e confuse che sanno che l’unica via d’uscita è andare d’accordo, ma i non riescono proprio a farlo. Anche se forse ha ragione il ministro delle Finanze Mathias Cormann che, interpellato a proposito delle continue interferenze di Abbott, ha dato un’angolatura positiva al tutto, dichiarando che l’ex primo ministro, con le sue critiche, costringe il governo a spiegare meglio ogni cosa che viene programmata: “Gli australiani così sono più informati e possono capire meglio le differenze che ci sono tra noi e i laburisti sulle cose che contano”.