Alla fine, tutti moderatamente contenti. Venerdì scorso non è successo nulla che non doveva succedere.  Al progetto NEG (National Energy Guarantee) è stato concesso l’ossigeno necessario per andare avanti con immutate difficoltà e speranze. Nel tanto pubblicizzato vertice di Sydney è stato dato al ministro dell’Ambiente e dell’Energia Josh Frydenberg il tempo necessario per arrivare a nuove intese ed evitare quello che nessuno può permettersi: l’abbandono dell’unica strada da percorrere per cercare di riportare un minimo di ordine in un mondo da più di dieci anni stravolto da opportunismo, errori, ripicche, lusinghe, illusioni, favori, profitti, regole imposte e auto-imposte da summit e trattati spesso diventati obsoleti e altre scritte in fretta per accontentare, di volta in volta, qualcuno.

Dopo la decisione di non decidere di venerdì, si va avanti. Domani si dovrebbe fare un altro piccolo passo. Frydenberg potrà mettere ufficialmente sul tavolo della Coalizione il NEG sopravvissuto a dodici mesi di trattative: non il modello originale né quello finale ancora da scrivere, con le variazioni da aggiungere ad ogni piccolo passo che viene fatto mentre ci si avvicina al possibile traguardo parlamentare.  Domani si cerca l’approvazione ‘in famiglia’, poi ci saranno nuovi contatti diretti con Stati e Territori per procedere verso nuove smussature e aggiustamenti che potrebbero portarci fino a ridosso della campagna elettorale nel Victoria. Venerdì non c’è stato alcun braccio di ferro perché non conveniva a nessuno.

Non c’è stato alcun veto da parte degli Stati laburisti chiamati dai colleghi federali a svolgere il ruolo di guastatori, in attesa di decidere il da farsi a seconda delle esigenze politiche del momento che verrà, quando cioè non si potrà più nascondersi e bisognerà scegliere da che parte stare. Non c’è stata alcuna capitolazione su richieste ritenute esagerate e nessun ultimatum. Il ‘ne riparleremo’ che ne è uscito dimostra quanto politicizzata sia la navigazione del vascello NEG. Specie perché il Victoria, spalleggiato dai ‘compagni’ di ventura del Queensland e del Territorio della capitale, dimostra il suo impegno a tirare la volata per l’opposizione federale, tentando allo stesso tempo di tenere a bada il pericolo verde nei seggi (statali) a rischio dell’area metropolitana di Melbourne: ostruzionismo tattico su un progetto nazionale, con tanto di opposizione al meccanismo di revisione dei tagli delle emissioni (ritenuti troppo bassi dal governo Andrews che, comunque, può modificarli a piacimento a livello amministrativo di sua competenza) e richiesta di permettere ritocchi, sempre verso l’alto, senza necessità di ricorrere al voto parlamentare. Richiesta che può anche essere valida, ma esattamente contraria proprio a quello che succede nello Stato che ha respinto la possibilità di modifiche ai suoi programmi energetici senza ricorrere ad apposite leggi in materia “per offrire garanzie a lungo termine agli investitori”. Niente cambiamenti di direzione affidati all’opportunismo del governo del momento, ma modifiche solo via esame in Parlamento. A Canberra, quando c’è di mezzo l’interesse dell’intera nazione, chissà perché dovrebbe essere diverso. Capolavoro di ipocrisia, ma quando si gioca da squadra talvolta bisogna sacrificarsi. Va stretto anche a Daniel Andrews, Annastacia Palaszczuk e Andrew Barr quel 26 per cento di riduzione delle emissioni entro il 2030, rispetto ai valori del 2005, fissato a Parigi. Bill Shorten ha promesso un rilancio al 45 per cento dei tagli da portare alle prossime elezioni, quindi bisogna fargli da apripista. Anche se l’impressione generale è che il traguardo non rientrerà tra le promesse blindate, ma su quelle che John Howard ha reso famose etichettandole  ‘non-core’, quelle cioè che si fanno ma che poi si possono anche non mantenere perché cambiano le circostanze. Irritante, ma la formula è ormai collaudata ed è stata usata con successo anche da Kevin Rudd, Julia Gillard e Tony Abbott. Un lasciarsi la porta aperta a tutto, basta infilare la noticina a piè pagina a qualche punto della campagna, facendo finta di niente, più sottovoce possibile, basta che si possa rispolverare all’occorrenza, una specie di polizza (con abbondante franchigia) sulla credibilità.

Domani quindi ancora NEG, con minimi rischi di intoppo. Nonostante ciò, il primo ministro Malcolm Turnbull poteva risparmiarsi le assicurazioni di una approvazione certa, perché il progetto è già stato dibattuto favorevolmente dalla Coalizione. Se va bene non ci ha guadagnato nulla, ma se per caso la brigata degli scettici, capeggiata da Tony Abbott e spalleggiata da Barnaby Joyce, dovesse creare qualche difficoltà, ecco la figuraccia della spaccatura, dell’autorità vacillante. L’ex primo ministro e almeno una dozzina di colleghi non sono per niente convinti che il NEG possa effettivamente permettere una riduzione delle tariffe energetiche, specie di 550 dollari l’anno come indicato (non promesso) da Frydenberg e sono, soprattutto, più che mai preoccupati che il piano nazionale possa portare ad un’accelerazione della chiusura degli impianti a carbone, con conseguenze per l’affidabilità dell’erogazione del servizio. Non hanno alcun reale progetto d’alternativa, ma continueranno a ‘far rumore, a parlare di ‘carbone pulito’ come soluzione a medio termine, anche se, perlomeno in Australia, l’idea non sembra interessare nessuno, anche perché richiederebbe massicci investimenti per la costruzione di nuovi impianti senza un vero futuro dato che il Paese e il mondo si muovono in tutt’altra direzione.

Domani Turnbull e il suo ministro del momento (Frydenberg) avranno le idee più chiare sull’aria che circola ‘in casa’, se la direzione intrapresa è quella giusta. Se ci sono rischi di barricate degli scontenti che potrebbero condizionare il voto in aula. L’energia ha già fatto vittime eccellenti in dieci anni di dibattiti e poca chiarezza che hanno portato alla situazione caotica di oggi: Turnbull ha perso la leadership del partito nel 2009 per essersi schierato con Kevin Rudd a favore della borsa dei veleni (ETS), bocciata dagli insaziabili verdi e dalla Coalizione con un nuovo leader (Abbott); è stato poi Rudd a cedere, in buona parte  a causa dell’abbandono del progetto dell’ETS, e quindi Julia Gillard, che ha pagato a carissimo prezzo la promessa non mantenuta di non introdurre una tassa sulle emissioni.

Se domani Turnbull e Frydenberg riusciranno a contenere le certe rimostranze di Abbott & Co. e usciranno dalla riunione in famiglia con la squadra unita alle loro spalle, un po’ di pressione passerà a Shorten che, al momento, può permettersi di rimanere tranquillamente alla finestra a godersi lo spettacolo dei contorcimenti dei suoi avversari e le trattative infinite con i suoi alleati.

Se ci sarà il via libera interno, si arriverà anche a quello degli Stati, poi toccherà al leader dell’opposizione mostrare le sue carte. Il ‘no’ parlamentare al NEG significherebbe prendersi la responsabilità di continuare a vivere nel caos e ritrovarsi a fare campagna con l’handicap non indifferente di essere stato quello che non ha voluto tentare di far scendere i costi energetici, schierandosi dalla parte dello scontato oltranzismo verde all’insegna del tutto o niente. Se poi, grazie ai molti altri limiti dei liberali, Shorten dovesse comunque farcela dovrà reimbastire un piano che comprenda inevitabilmente: garanzie di servizio, obiettivi di tagli delle emissioni e bollette meno care, con Stati (liberali) pronti a fargli la guerra e un’opposizione estremamente motivata a dire ‘no’.