Il primo ministro Malcolm Turnbull e il responsabile del Tesoro Scott Morrison non parlano più tanto di ‘crescita e lavoro’, quello che era stato il ‘leitmotiv’ della campagna elettorale che avrebbe dovuto essere completamente diversa dal passato, esente cioè da slogan e promesse non sostenute dai fatti. Non lo fanno più perché è difficile parlare di crescita dopo le cattive notizie sull’andamento economico del trimestre chiusosi a settembre e in vista del quadro finanziario di metà anno, a cui saranno tolti i veli il 19 dicembre, che confermerà che il debito continua a crescere e che il ritorno in attivo diventa una missione sempre più impossibile, nei termini che erano stati indicati del 2020/21, tanto che ieri, il ministro delle Finanze, Mathias Cormann, si è rifiutato di avventurarsi in un nuovo pronostico preferendo insistere su un generico ‘prima possibile’.
Morrison si è affrettato a spiegare, dopo la frenata economica del terzo trimestre dell’anno, che ci sono stati fattori esterni ‘una tantum’ che hanno contribuito alla crescita negativa e che non c’è alcun pericolo di recessione dato che i funzionari del Tesoro hanno assicurato un pronto ritorno al segno più in dicembre ‘anche se, ha ammesso, è improbabile che saranno raggiunti gli obiettivi di bilancio di un’espansione pari al 2,5 per cento per il corrente anno finanziario’. Bisognerà accontentarsi di qualcosa di meno e cercare anche di trovare il modo di rivitalizzare gli investimenti privati che al momento danno più di qualche segno di debolezza. Una tendenza al ribasso che dura ormai dal 2012 e che, ultimamente, ha subito un’accelerazione con una perdita di interesse nei settori dell’edilizia abitativa e delle costruzioni in generale.
Meno investimenti nel ‘mattone’ (in Australia sarebbe meglio parlare di cemento e vetro), ma soprattutto nel campo minerario, con il Western Australia che sta risentendo più di ogni altra parte del Paese di questa nuova realtà ed è ora ufficialmente in recessione (due trimestri consecutivi di crescita negativa), con campanelli d’allarme che hanno cominciato a suonare con insistenza anche nel New South Wales e nel Victoria.
Anche la seconda parte dello slogan elettorale (il lavoro) dà preoccupanti segni di debolezza: non deve infatti trarre in inganno quel, a prima vista soddisfacente, tasso di disoccupazione del 5,6 per cento, che il resto del mondo ci invidia, perché, almeno in politica, la matematica può anche diventare un’opinione. Quando si parla di occupazione, infatti, i numeri vanno analizzati un po’ meglio e allora ci si accorge che dietro la discreta vetrina ci sono dati meno solidi: negli ultimi dodici mesi, infatti, i lavori a tempo pieno sono diminuiti nell’ordine delle 70mila unità, mentre sono aumentati di 133mila gli impieghi part time facendo felici solo le statistiche.
Meglio non parlare più tanto di ‘crescita e lavoro’ quindi e concentrarsi invece su inviti alla collaborazione per tentare di puntellare l’economia, evitare di perdere la tripla A e magari cominciare a parlare di un’altra stagione di riforme (dopo quella degli anni ’80 e ’90) che dovrebbero riguardare fisco, welfare e relazioni industriali: inviti che, a questo punto, vanno rivolti soprattutto all’opposizione laburista e, in particolare, a Bill Shorten affinché adotti una tattica meno in stile Abbott e più in stile Howard, ai tempi dei governi riformisti di Hawke e Keating, quelli che hanno davvero cambiato in meglio l’Australia e permesso poi alla Coalizione di rimanere al potere dal 1996 al 2007. Perché se i due leader laburisti, assieme ed individualmente, sono riusciti a fare quello che hanno fatto nei campi delle liberalizzazioni, del lavoro, dei dazi, della sanità e dell’assistenza, un po’ lo devono anche alla costruttiva ‘collaborazione’ dell’allora leader dell’opposizione John Howard che, invece della tattica dell’ostruzionismo, aveva scelto quella del dialogo, non solo con i laburisti, ma prima ancora con coloro che all’interno del suo stesso partito non erano propensi, nell’interesse della nazione, ad abbassare la guardia ideologica. Una prova di competenza e maturità politica che è durata fino al 2009, quando la presa di posizione di Turnbull sui cambiamenti climatici ha propiziato l’arrivo sulla scena di Abbott, con la sua tattica demolitrice prima contro Kevin Rudd e poi, con ancora maggiore determinazione, contro Julia Gillard.
Ha funzionato, ma ha lasciato parecchio amaro in bocca all’elettorato: la strategia dello scontro a muso duro, del ‘no’ a tutto, a prescindere dai meriti di qualsiasi proposta, lo ha portato alla Lodge, ma non gli ha regalato alcun seguito o apprezzamento a livello personale. E Bill Shorten ha incredibilmente imboccato la stessa strada, la stessa tattica della negatività costante, del ‘tutto o niente’, del cercare in qualsiasi modo di rendere la vita del governo più precaria possibile.
Che poi Turnbull ci metta del suo a facilitare gli attacchi dell’opposizione, regalando opportunità incredibili di ‘tiro al bersaglio’, mostrando scarsa chiarezza di idee praticamente su ogni cosa, è un altro discorso: i matrimoni gay (per fortuna al momento tema dormiente), il ping-pong tra Camera e Senato, regalando attimi di ‘peso’ politico ai vari Lambie, Hinch e Xenophon, sulla tassazione dei giovani col visto vacanza-lavoro che vanno a raccogliere la frutta (impatto irrisorio sui conti di gestione), i cambiamenti alla sezione 18C della legge anti-discriminazione razziale praticamente auto-sollecitati, l’importazione o meno di un particolare modello di fucile e ripetizione che interessa solo al senatore David Leyohjelm e pochi intimi, il rilancio, grazie ai commenti senza pensare alle conseguenze di Josh Frydenberg, del dibattito sui cambiamenti climatici sono gli esempi più evidenti di una capacità di andare a cercarsi guai, dando spazio a problemi che problemi non sono per la maggior parte degli elettori e del Paese.
Sarebbe sicuramente un tantino più interessante e utile se Turnbull non si facesse distrarre e, semplicemente (come ha scritto Judith Sloan sull’Australian sabato scorso), concentrasse le sue attenzioni su quella che era stata la promessa a cui un po’ tutti avevano creduto e avevano sottoscritto quando, scalzando Abbott, aveva affermato che avevamo bisogno di “uno stile di leadership che rispettasse l’intelligenza della gente”, di qualcuno “in grado di spiegare complicati problemi e quindi di stabilire la linea d’azione necessaria per affrontarli, perorando la causa per farlo”. Sarebbe un buon inizio del 2017, e non solo per lui.