Fossimo stati ai tempi di Julia Gillard si sarebbe già parlato di governo paralizzato o incapace, di un Paese sull’orlo del precipizio. I conti non tornano, c’è un aggiustamento alla settimana delle stime di crescita e c’è un’emergenza al giorno sul fronte internazionale tra sanzioni, dazi, minacce di crisi diplomatiche e commerciali, venti di guerra e guerre vere e proprie.
E’ vero che quello laburista era un governo con una scarsa legittimazione popolare e c’era un’opposizione forte e implacabile mentre adesso c’è una che sta ancora studiando il da farsi. Ed è anche vero che l’attuale esecutivo ha ottenuto, solo pochi mesi fa, un mandato insperato e convincente nei numeri finali, ma se scendiamo nei dettagli di quello che è successo lo scorso maggio, il clamoroso risultato diventa un po’ meno spettacolare di quello che può sembrare a prima vista.
Ma andiamo con ordine: il Fondo monetario internazionale (Fmi) qualche giorno fa ha ridimensionato le previsioni di crescita dell’economia mondiale e di quella australiana in particolare. Mazzata paurosa, ma certamente non del tutto inaspettata per il governo guidato da Scott Morrison che insiste su una presunta solidità economica di base che non lo farà cambiare né passo né obiettivi.
Una solidità, tra l’altro, confermata dal Governatore della Reserve Bank, Philip Lowe - proprio in questi giorni a Washington – che, smentendo se stesso e l’Fmi, ha assicurato che l’Australia è sul punto di svoltare l’angolo: il Paese insomma va, anche se fino a qualche giorno fa aveva invocato stimoli e aiuti al di fuori delle manovre monetarie della Banca centrale che non stanno portando i frutti sperati. Anche l’ex ministro del Tesoro, Peter Costello (ora presidente della Nine Entertainment Co, che comprende i giornali dell’ex Gruppo Fairfax), ha dichiarato che la corsa al ribasso degli interessi da sola non basta, suggerendo interventi governativi a sostegno della crescita. Un suggerimento che Morrison e il ministro del Tesoro Josh Frydenberg, al momento, non raccoglieranno, focalizzati come sono a raggiungere l’obiettivo ‘numero uno’ del ritorno in attivo: un traguardo al quale politicamente non possono rinunciare, costi quel che costi. La loro credibilità e quella del governo non lo permettono: incrociano quindi le dita, ostentano sorrisi di circostanza e tengono duro, poi magari se ne riparlerà e si farà quello che bisogna fare. Fino a quel momento barra dritta e ogni responsabilità per tutto quello che non va sul fronte economico dirottata sui ‘venti contrari’ che soffiano sul burrascoso mare internazionale.
L’opposizione si rende perfettamente conto che i tempi sono già cambiati, che dopo l’euforia di maggio la realtà sta prendendo il sopravvento, ma può fare la voce grossa solo fino ad un certo punto perché ha le mani legate: sulla questione del budget di gestione, infatti, durante la campagna aveva promesso un ritorno in attivo ancora più urgente e consistente di quello promesso dai liberal-nazionali, quindi difficile criticare l’intransigenza di Morrison e Frydenberg senza offrire alternative, nascondendosi dietro la famosa e lunghissima analisi ‘sblocca-tutto’ della sconfitta di maggio, finalmente in dirittura d’arrivo (la stesura del documento ufficiale dovrebbe essere iniziata ieri). Questione ormai di un paio di settimane e poi Albanese potrà liberarsi di zavorre programmatiche che non gli appartengono e accordarsi con i colleghi sul nuovo menu politico da offrire, ponendo fine alle contraddizioni interne, che stanno uscendo allo scoperto in attesa di una ripartenza coordinata.
Non necessariamente tutti i contenuti della revisione saranno resi pubblici, deciderà il leader del nuovo corso quanto e cosa far sapere: dopotutto riguarda esclusivamente il Partito capire gli errori commessi, puntare il dito sulle responsabilità di Bill Shorten o di altri su come è stata condotta la campagna che ha portato ad un k.o. che brucia ancora tremendamente e condiziona, per ora, l’operato di Albanese e della sua squadra.
Uno dei ‘suggerimenti’ che uscirà sicuramente dall’analisi coordinata dall’ex premier del South Australia Jay Weatherill, riguarderà la necessità di prendere più attentamente in considerazione le questioni della ‘diversità’ dell’elettorato e delle esigenze politiche di due Stati dove i laburisti hanno, di fatto, perso la sfida di maggio: il Queensland e il Western Australia. Ma anche la realtà del voto ‘anticipato’, che sembra diventare sempre più di moda, merita attenzione: la corsa ai seggi prima della giornata ufficiale delle urne, secondo quanto rivelato la scorsa settimana dalla Commissione elettorale, ha dato risultati ben diversi di quelli che avevano anticipato gli ‘esperti’ e, probabilmente, anche gli strateghi dei due partiti. Chi ha votato prima del 18 maggio, e si è trattato di un numero record di australiani, non ha votato, come aveva sostenuto a più riprese Shorten, per il cambiamento, ma per la Coalizione. Il giorno effettivo del voto i laburisti hanno, infatti, vinto la sfida diretta con i liberali.
La campagna, in altre parole, ha funzionato, anche se non in maniera uniforme in tutto il Continente. Il fallimento dei laburisti nei due Stati ‘minerari’ è più evidente che mai: hanno conquistato solo 5 dei 16 seggi in palio nel WA e solo 6 dei 30 in gioco in Queensland. Nel resto del Paese la vittoria è stata invece abbastanza netta: 57 a 43. Disfatta quindi dai connotati ben precisi quella di Shorten, a dimostrazione di quanto diversa sia l’Australia nei modi di pensare e nelle priorità e quanto complicato sia per i maggiori partiti portare avanti una ‘narrazione’ nazionale su alcuni temi come i cambiamenti climatici o l’immigrazione.
La Coalizione ha vinto, senza se e senza ma, perché ha raccolto in totale più voti e più seggi dei laburisti, ma almeno per quanto riguarda l’opposizione il risultato nei dettagli qualcosa deve insegnare per il futuro. Non bastano i tour del leader del momento durante la campagna nei due Stati in questione, ma serve una maggiore comprensione delle particolari esigenze e aspettative di elettori ‘diversi’ da quelli che vivono a Melbourne o a Sydney. E, soprattutto, probabilmente una maggiore considerazione e un maggior coinvolgimento decisionale per i rappresentanti di un vasto territorio, come quello del Queensland, dove l’elettorato ‘regionale’ è più numeroso di quello che vive nei grandi centri urbani: fattore che spiega, almeno in parte, la popolarità e seguito di personaggi come Pauline Hanson, Clive Palmer, Bob Katter, Barnaby Joyce o George Christiensen.
Per il Western Australia il discorso è diverso: c’è il fattore lontananza (non solo geografica) da tenere in considerazione e l’importanza di una rappresentanza di peso a Canberra che la Coalizione ha sempre tenuto presente: nella formazione di Morrison, infatti, ci sono ben cinque ministri del WA (Mathias Cormann, Finanze; Christian Porter, Giustizia; Linda Reynolds, Difesa; Melissa Price, Servizi per la Difesa e Ken Wyatt, Popolazione Indigena).
Un po’ provinciali, sicuramente un po’ diversi per scelta o circostanze geografiche e culturali, ma comunque due Stati in cui Morrison ha mostrato di muoversi molto più a suo agio di Shorten. Probabilmente Albanese può fare meglio del suo predecessore grazie al suo stile, alla sua personalità, all’impressione che sta dando di una maggiore genuinità e vicinanza all’australiano medio. Quasi quasi, insomma, potrebbe anche riparlare del ‘top end of town’ senza dare l’impressione di criticare la propria cerchia di amici.