È destinata a far discutere la decisione del partito liberale di assegnare a One Nation, piuttosto che ai compagni di Coalizione dei Nazionali, le preferenze nelle elezioni statali del Western Australia che si terranno il prossimo 11 marzo. La mossa riguarderà solo la Camera Alta e i seggi delle zone regionali e in cambio il partito di Pauline Hanson dovrà impegnarsi a dare precedenza ai Liberali rispetto ai Laburisti in tutti i seggi della Camera Bassa dove è candidato.

Il premier del WA, Colin Barnett, ha accolto favorevolmente la decisione, che ha definito “inusuale ma pragmatica”, per impedire che lo Stato passi in mano laburista.

“One Nation di oggi è una bestia molto diversa da quella di vent’anni fa, più sofisticata, dobbiamo trattarlo come ogni altro partito” ha detto il ministro federale dell’Industria, Arthur Sinodinos, intervistato ieri dalla ABC, il quale ha dichiarato che la decisione nel Western Australia è stata dettata da “circostanze locali” nell’obiettivo di togliere voti all’ALP.

Schivando la domanda del conduttore di Insiders, Barrie Cassidy, che gli chiedeva di chiarire in che modo One Nation potesse considerarsi più sofisticato rispetto agli anni ’90 dal momento che non ha modificato le sue politiche, il ministro si è limitato a dire che il partito oggi viene trattato con più rispetto dai media e piace a molte persone. “La gente è arrabbiata da morire, ci vorrà tempo per convincerla che One Nation non è la risposta” ha aggiunto Sinodinos.

Nel frattempo, i Liberali (e non solo) sono disposti a chiudere un occhio, o anche tutti e due, sulle controverse posizioni dello schieramento populista guidato dalla Hanson pur di prendersi una fetta dei suoi voti.

D’altra parte, come dimostra l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti e la vertiginosa ascesa dell’estrema destra di Marine Le Pen in Francia, data vincente al primo turno delle presidenziali del prossimo aprile e maggio, certe idee che dieci anni fa sarebbero state bollate come divisive, discriminatorie, razziste oggi sono state completamente sdoganate e non attirano più critiche né nei media né tra l’opinione pubblica, anzi, vengono  applaudite da molti come uno smascheramento della ‘tipica ipocrisia’ della classe dirigente.

La disaffezione verso la politica tradizionale è arrivata anche in Australia e One Nation ne sta sapientemente calvalcando l’onda, con le altre forze che tentano a tratti di imitarne i linguaggi. I sondaggi intanto continuano a dare la Hanson in salita. Nel fine settimana, un sondaggio di Galaxy Research ha rivelato l’estensione della crescita di One Nation in Queensland, dove ha toccato un consenso record del 23%, 7 punti percentuali in più rispetto all’inizio di novembre, superando perfino il picco del 1998 quando ottenne il 22,7% alle elezioni statali conquistando 11 seggi su 89. A farne le spese sono i due partiti principali, con la premier laburista Annastacia Palaszczuk ferma al 39% dei consensi dell’elettorato e il leader statale dell’opposizione Tim Nicholls al 27%.

Considerando che il Queensland è lo ‘swing state’ per eccellenza dove spesso si decide il risultato delle elezioni federali, entrambi gli schieramenti vorranno tentare di arginare l’emorragia di consensi verso One Nation o provare a portarli dalla loro parte. Molto si giocherà sulla risposta che sapranno fornire al malcontento dei tanti che, nello Stato nord-orientale australiano, così come in Western Australia dove i Liberali hanno deciso di dirottare le proprie preferenze verso il partito populista, hanno sentito duramente gli effetti del declino del boom minerario.

Purtroppo è altamente probabile che una delle conseguenze sarà un’ulteriore virata verso l’industria del carbone e una frenata in tema di energie rinnovabili che, dopo il blackout dello scorso settembre in South Australia, il governo ha presentato a più riprese come la causa delle interruzioni nella fornitura di energia elettrica e dell’aumento delle bollette, nonostante molteplici esperti abbiano escluso un collegamento tra l’uso di energie rinnovabili e il blackout. “Che tu abbia una centrale eolica o una centrale a carbone alla fine di una linea di trasmissione, se il sistema viene colpito da un temporale o è costretto a spegnersi per non essere danneggiato dal temporale, non importa quale sia la fonte di energia” ha spiegato ad esempio Tony Wood del Grattan Institute.

La settimana scorsa, il ministro del Tesoro Scott Morrison ha pensato bene di riderci su presentandosi in parlamento con un pezzo di carbone. “Mr Speaker, è carbone, non abbia paura! Non le fa male!” ha scherzato, dicendo che l’opposizione ha la fobia del carbone e, come ha ripetuto anche il primo ministro Turnbull, porta avanti un “approccio ideologico alla questione energetica”.

Davanti a un riscaldamento globale ormai sotto gli occhi di tutti, lo scherzo risulta per lo meno di cattivo gusto, anche se fuori dall’Aula il governo prende la questione in modo meno goliardico. Il ministro Sinodinos, nell’intervista di ieri, ha auspicato la creazione di un piano energetico nazionale e ha ammesso che i prezzi dell’elettricità, come quelli di tutti i prodotti, non dipendono dal tipo di energia utilizzata ma aumentano quando l’offerta è inferiore alla domanda e che bisogna quindi aprire il mercato, lasciare che sia il mercato a decidere, una volta fissati limiti sulle emissioni.

L’uso del carbone comunque non viene messo in discussione, piuttosto si investirà su moderne centrali a carbone ultra-supercritiche per aumentare l’efficienza e ridurre l’inquinamento, ma finché il vento e il sole non avranno alle spalle delle lobby altrettanto influenti il combustibile fossile rimarrà il migliore amico dei politici.