Con lui a New York, i ministri degli Esteri e dell’Immigrazione, Julie Bishop e Peter Dutton. Il leader liberale avrà l’occasione e il privilegio di parlare davanti all’Assemblea Onu di quelli che considera i ‘successi’ dell’Australia nei campi della sicurezza, del controllo dei confini, dell’immigrazione e dei richiedenti asilo.

Il Paese, nel bene e nel male, è infatti spesso nominato quando si parla internazionalmente della nuova realtà migratoria globale, di più di 65 milioni di persone che cercano rifugio o sistemazione in qualche altra parte del mondo a causa di guerre, terrorismo, persecuzioni, torture. Il più grande spostamento di genti dalla seconda Guerra mondiale.

Di Australia si parla in modo positivo guardando ad un programma di immigrazione di indubbio successo, di un processo di insediamento ‘controllato’ e guidato in un percorso totale di assistenza con numeri ben precisi e servizi adeguati, modificati attraverso gli anni, irrobustiti da numeri altrettanto precisi su base umanitaria. Non altrettanto positivamente però l’Australia viene giudicata dal resto del mondo, anche se alcuni paesi e alcuni movimenti politici la prendono come esempio, sul fronte degli aspiranti profughi, con i suoi centri di detenzione al di fuori dei confini nazionali e il ‘non insediamento’ garantito per chi cerca di raggiungere il Paese ‘clandestinamente’. I cosiddetti ‘boat people’, le persone che affidano la loro vita e il loro futuro ai trafficanti di esseri umani, si ritrovano la strada sbarrata, per sempre. Una ‘protezione dei confini’ e una severità che Turnbull e Dutton si sono già impegnati a difendere parlando, appena giunti a New York, del miglior sistema del mondo per affrontare questa nuova realtà internazionale. Una linea dura ed intransigente, inconcepibile in altre nazioni occidentali, che ha permesso all’Australia di interrompere gli arrivi via mare di aspiranti profughi e possibilmente - secondo il responsabile dell’Immigrazione - di salvare migliaia di vite umane, e di aumentare allo stesso tempo, il numero di visti concessi su base umanitaria, “accettando, in relazione alla crisi in Siria, dodicimila rifugiati extra provenienti dalla regione martoriata da guerra e atrocità”. Il primo ministro ha ricordato che nessun governo può permettersi di parlare con convinzione ai suoi cittadini del problema dei rifugiati, di varare cioè un piano di accoglienza che possa essere accettato dall’opinione pubblica se prima non avrà dimostrato di essere in controllo della situazione, di avere un Paese protetto e sicuro. “Solo a quel punto i cittadini saranno pronti ad accettare quello che in Australia è sempre stato accettato: la diversità, l’accoglienza, il mutuo rispetto che è alla base di una società multiculturale come la nostra”.

Una risposta preventiva a quello che sarà chiesto ai partecipanti al summit che si terrà quest’oggi al Palazzo di Vetro, di migliorare cioè il coordinamento e la cooperazione tra gli Stati nell’affrontare la crisi migratoria e soprattutto di rafforzare un approccio fondato sulla tutela degli individui. Un tentativo di mettere a punto un programma che possa fornire una risposta mondiale, coordinata ed efficace, alla crisi migratoria.

L’Australia è convinta di essere sulla strada giusta e ci sono poche possibilità che nell’ennesimo vertice, a parte le obbligatorie speranze di rito e il parlare alla vigilia di opportunità storiche, si arrivi ad un’intesa, come vorrebbe Obama, per raddoppiare il numero di rifugiati che ogni singolo Paese accoglie e aumentare del 30 per cento i finanziamenti per programmi destinati ai richiedenti asilo. Per questo il presidente Usa ha voluto un vertice in proprio, il giorno dopo, con i leader della conferenza Onu, per cercare di ottenere qualche impegno concreto che sicuramente non uscirà da quella che sarà la “Dichiarazione di New York” (il nome del documento che comprenderà gli accordi simbolici e le responsabilità, non certo blindate, che usciranno dal summit).

E mentre Turnbull, Dutton e, in chiave minore, Bishop, da New York, concentreranno le loro attenzioni sul problema dei rifugiati, in Australia, il backbencher d’assalto, quel George Christensen che non si è tirato indietro per far riflettere la squadra liberale su concessioni, aggiustamenti, rinunce necessarie per arrivare al compromesso ‘accontenta tutti’ sulla riforma della Superannuation, ha spostato i riflettori dei media e del governo su un altro tormentone. Uno decisamente più piccolo sulla scala delle priorità, ma importante, oltre che per i diretti interessati (e nella mischia ci sono migliaia di giovani italiani), per il settore agricolo australiano. Christensen non è intervenuto di certo per questioni di principio, ma dato che ci sono in ballo interessi economici non si scherza: quella penalizzazione, in fatto di tassazione (imposizione al 32,5 per cento, senza sconti fino a circa 20mila dollari all’anno come per tutti gli altri cittadini e non cittadini australiani), per coloro che vanno a raccogliere la frutta con il visto vacanza-lavoro, è un’assurdità che deve andare oltre alla sospensione del provvedimento, come è stato annunciato qualche mese fa. L’idea deve essere proprio dimenticata, lasciando che anche i giovani ‘turisti’, che svolgono un lavoro essenziale per l’economia australiana, un lavoro che gli australiani non vogliono fare, in aree spesso sperdute del Continente (per non parlare di condizioni ed abusi, problemi noti e reali che andrebbero affrontati con la massima urgenza) non vengano fiscalmente penalizzati dato che ad un ‘paradiso’ così potrebbero anche cominciare a rinunciare.

“Il ministro del Tesoro Scott Morrison, ha spiegato Dutton in un’intervista sull’Abc, sta prendendo in esame la situazione e ci sarà un annuncio in merito”. E l’annuncio sarà positivo, non perché Christensen ha minacciato di far cadere il governo, ma perché un minimo di buon senso lo impone. E costa anche poco: circa 540 milioni di dollari di entrate, comunque per ora ‘congelate’.