Che abbiano finalmente capito che così non possono andare avanti? Il ‘caso’ potrebbe averli aiutati. Dopo cinque anni di lotte interne potrebbero aver scelto l’uomo giusto per riportarli ad un ‘senso di responsabilità’ nei confronti di quel 35 per cento di australiani che sono ancora dalla loro parte, con qualche speranza di conquistare un po’ più della metà di quel 30 per cento di elettori che aspetta di lasciarsi convincere. Liberali e laburisti, infatti, viaggiano a livelli di sostegno diretto (voti primari) attorno al 35 per cento. Uno scoraggiante pareggio e una continua perdita di consensi negli ultimi dieci deprimenti anni della politica australiana. Gli anni delle ‘porte girevoli’, dei leader che non resistono un intero mandato, sfiduciati dalla loro stessa squadra. Prima i laburisti con la saga Rudd-Gillard-Rudd poi i liberali con il tris Abbott-Turnbull-Morrison, in tempi ancora più ristretti.

La storia dei liberali è stata un particolare gioco al massacro: hanno stravinto, infatti, le elezioni del 2013 con il conservatore d.o.c., Tony Abbott che però non è mai riuscito ad avere l’intero partito dalla sua parte.

Tanto che in settembre del 2015 hanno optato per una guida più ‘morbida’ puntando, ma senza la necessaria convinzione e fiducia dell’intera squadra, su Malcolm Turnbull. Nonostante le promesse di massima collaborazione e il pagamento, a compromessi, del ‘debito’ alla destra del partito, il vento del dissenso non si è fatto attendere e ha cominciato a soffiare sempre più forte, le contestazioni sono diventate sempre più plateali fino ad una nuova resa dei conti estremamente mal gestita da tutti. Un fiasco del fiasco, con il colpo di fortuna del terzo incomodo che potrebbe aver salvato il partito dall’oblio elettorale mettendo un po’ tutti d’accordo: il ‘conservatore ma non troppo’ Scott Morrison ha dalla sua parte, oltre alle ‘mani pulite’ nella corrida di poco più di una settimana fa, il fatto di essere un relativamente giovane padre di famiglia, affiancato da un altrettanto relativamente giovane (Josh Frydenberg) padre di famiglia. Non cosa da poco. Grazie a figli in età scolastica, leader e vice sono a contatto con la realtà della vita di ogni giorno, dei sacrifici del conciliare lavoro e famiglia. 

Morrison e Frydenberg potrebbero riportare un po’ di buonsenso a Canberra e magari perfino far fare un saltino di qualità al dibattito parlamentare (probabilmente ce lo aspettavamo un po’ tutti anche con Turnbull, ma un po’ le briglie del ‘contratto’ in famiglia per la Lodge, un po’ i suoi limiti come politico ci hanno fatto poi scrivere tutta un’altra storia). 
I liberali sicuramente, ma probabilmente l’intero Paese, si augurano che stavolta possa andare meglio: che si possa ritornare alle proposte, alle soluzioni, alla stabilità. Per il governo la speranza è anche quella che si possa arrestare il declino che i sondaggi spietati hanno certificato da un numero interminabile di mesi. Anche qui un ‘bonus’ per il nuovo primo ministro: i liberali con Turnbull erano scesi talmente in basso che un recupero di consensi, una volta passati gli effetti della tempesta della maxi-rissa di una decina di giorni fa, è quasi scontato.

Morrison i primi passi da leader di governo li ha fatti piuttosto bene: per prima cosa ha scelto una formazione equilibrata, evitando di dare l’impressione di ‘punire’ o ‘premiare’ chi si è schierato a favore o contro Peter Dutton (alle prese con uno scandalo-visti – servizio a pag 13 -  che, nonostante le rassicurazioni del primo ministro di scelte senza ombre, potrebbe farlo ritornare sui banchi dell’anonimato che ha occupato un paio di giorni prima della mal calcolata sfida a Turnbull); poi ha fatto una visita altamente strategica nelle zone del Queensland colpite dalla siccità e quindi la missione in Indonesia per finalizzare un accordo di libero scambio che ha avuto svariati anni di preparazione.

Al rientro immersione totale nel presente e futuro, con priorità al ritorno a quella che dovrebbe essere la normalità per qualsiasi partito: l’unità, la coesione, la capacità di fissarsi obiettivi senza demolirli ancora prima che lo faccia l’opposizione o ancora peggio gli elettori. La caccia dei consensi dei delusi in libera uscita deve cominciare con il ristabilire qualche tipo di ‘credo’. Di prendere cioè delle decisioni ferme e in linea con i propri valori, presentando proposte concrete e praticabili che suonino come una chiara opzione presente sul mercato politico.

I laburisti hanno saputo costruire un programma d’alternativa, seppur con diverse zone d’ombra, che hanno portato con un certo successo alle elezioni del 2016 e che hanno susseguentemente irrobustito, approfittando dei vuoti lasciati dai partiti di governo. La Coalizione invece, subito dopo la straripante vittoria del 2013, è incredibilmente andata avanti a zig-zag, con poche accelerazioni e tante rinunce. Nel 2014 ha presentato un budget che puntava a ridurre debito e deficit, ma la tambureggiante campagna-contro dei laburisti e dei sindacati, e le indubbie difficoltà di prolungati negoziati in un Senato testardamente ostile, hanno portato alla resa senza avere a disposizione alcun ‘piano B’. Poi, dopo il mantenimento della promessa ’clou’ delle elezioni 2013, dell’abolizione della ‘carbon tax’, ecco l’incapacità di formulare un nuovo e sicuramente necessario piano energetico. Il resto è storia recente: riforma fiscale azzoppata dall’ostruzionismo del Senato, accettazione del piano-scuola laburista con tutti gli esorbitanti costi del caso e contenuti non proprio chiarissimi e condivisi, l’affondamento del NEG (National Energy Guarantee).

Per convincere gli australiani che qualcosa è effettivamente cambiato, dopo una delle settimane più sconcertanti e scoraggianti (non per l’opposizione ovviamente) della politica federale, per il governo c’è solo un modo: dimostrare di avere capito, eliminando qualsiasi risentimento interno e mettendosi al lavoro per varare al più presto un programma attento, efficace e vicino alle esigenze dei cittadini. Non è facile, ma bisogna dimostrare che gli egoismi non possono soppiantare la passione, la serietà, gli interessi del Paese.

Non è facile perché è cambiato tutto dopo la sconfitta di John Howard. Prima del golpe ai danni di Rudd, nel giugno del 2010, solo due primi ministri [nel dopoguerra] erano stati  rimossi dal loro stesso partito: John Gorton e Bob Hawke. Negli ultimi 8 anni è accaduto quattro volte. E non per colpa di chissà quali crisi economiche, scandali o tempeste internazionali, ma per puro opportunismo, paure, impazienza, ambizione, lotte di potere, regolamenti di conti, vendette che forse riflettono semplicemente i valori indeboliti della ‘nuova’ società in cui viviamo.