I toni accesi della crisi nordcoreana non accennano a placarsi. La settimana scorsa, la scena era surreale quando il presidente statunitense Donald Trump e il ministro degli Esteri di Pyongyang, Ri Yong Ho, hanno usato l’Assemblea generale delle Nazioni Unite per scambiarsi minacce di guerra nucleare e annientamento.

Le minacce sono continuate, quando, poche ore dopo il sorvolo di una flotta caccia bombardieri Usa nei cieli vicino al confine con la Corea del Nord, Ri è intervenuto al Palazzo di Vetro dicendo che, dopo gli insulti rivolti al leader Kim Jong-un, il lancio di razzi verso gli Stati Uniti è “inevitabile”.

Il ministro, che come Kim stesso in un messaggio trasmesso dalla tv nordcoreana, ha definito Trump “mentalmente disturbato”, ha aggiunto che il suo Paese è ormai “a pochi passi” dal raggiungimento della piena potenza atomica e ha definito una “vana speranza” che la Corea del Nord possa cambiare rotta “a causa di più aspre sanzioni da parte di forze ostili”.

Solo poche ore dopo, la risposta di Trump: “Ho appena sentito il ministro degli Esteri della Corea del Nord parlare all’Onu – ha twittato -. Se riporta i pensieri del Piccolo Uomo Razzo (come Trump ha ormai soprannominato Kim Jong-un, ndr), non dureranno a lungo!”.

Il capo della Casa Bianca ha ribadito quindi la volontà espressa nei giorni scorsi di “distruggere totalmente” la Corea del Nord, in caso di attacco. Una posizione appoggiata anche dal primo ministro Malcolm Turnbull che, intervistato alla trasmissione televisiva Sunrise mercoledì scorso, ha detto che “se [Kim] attacca gli Stati Uniti sarà un suicidio per il suo regime. Sarà un disastro, migliaia e migliaia di persone moriranno”. “Ci sarà una risposta di proporzioni enormi che metterà fine al regime, come ha detto il presidente [Trump]” ha aggiunto Turnbull.

Il pugno duro nei confronti di Pyongyang è una politica bipartisan, infatti anche il leader dell’opposizione Bill Shorten è partito ieri per la Corea del Sud con l’obiettivo di rassicurare Seul che la posizione australiana nei confronti dei vicini ‘canaglia’ non cambierà se ci sarà un cambio al governo. Nella quattro giorni tra Corea del Sud e Giappone, Shorten e la responsabile degli Esteri laburista Penny Wong incontreranno il primo ministro sudcoreano Lee Nak-yeon, l’ex segretario generale Onu Ban Ki-moon, il comandante delle forze Usa in Corea Vincent Brooks e il ministro degli Esteri giapponese Taro Kono.

“La Corea del Sud e il Giappone sono vitali per l’economia e la sicurezza nazionale della nostra regione ed è quindi importante in questo momento cruciale che entrambi gli schieramenti della politica australiana siano d’accordo” ha detto il leader laburista prima della partenza, facendo pressione su Mosca e Pechino affinché appoggino le nuove misure restrittive varate dal Consiglio di Sicurezza Onu (con l’appoggio anche di Russia e Cina) contro il regime nordcoreano.

In assenza di Shorten, a fare le veci di leader dell’opposizione è Tanya Plibersek che ieri è intervenuta a Insiders sul tema dei matrimoni gay dicendosi “nervosa” per i risultati del voto postale. Plibersek ha affermato che il rischio più grande è “l’apatia”, che porterà molte persone che sono a favore dei matrimoni tra persone dello stesso sesso a non votare pensando che la vittoria del ‘Sì’ sia scontata. La vice leader laburista ha quindi sottolineato l’importanza di ogni singolo voto e ha invitato i cittadini a non farsi distrarre da questioni, quali Safe Schools o la libertà religiosa o di parola, che sono state trascinate nel dibattito ma che non c’entrano in realtà nulla con la domanda sottoposta agli australiani nel sondaggio postale in corso.

Nel frattempo, dall’altra parte del “fossato”, il National Party del primo ministro Bill English ha vinto le elezioni di sabato ma non ha conquistato abbastanza seggi per formare un governo, lasciando la Nuova Zelanda con un parlamento ‘appeso’ e in mano all’irascibile leader del partito anti-immigrazione New Zealand First, Winston Peters. I nazionali hanno conquistato 58 seggi (46% dei voti), mentre il partito laburista si è fermato a 45 (35,8%) e non riesce a raggiungere il partito del premier in carica neanche in coalizione con i verdi, a cui vanno 7 seggi. L’impresa dei laburisti neozelandesi, con il ‘ciclone’ Jacinda Ardern alla guida, è stata comunque notevole e li ha visti ottenere ben 13 seggi in più rispetto alla precedente tornata elettorale, anche se a discapito principalmente dei verdi e del partito maori che si ritrova senza seggi. Per avere la maggioranza in parlamento servono almeno 61 seggi e, con 9 seggi, il populista New Zealand First ha la possibilità di fare da ago della bilancia e decidere chi sarà il prossimo primo ministro neozelandese. Nei loro discorsi post-voto, sia English che Ardern hanno immediatamente cominciato a corteggiare il leader del partito. Ardern ha fatto riferimento ad alcune politiche laburiste, come la lotta alla povertà e il taglio dell’immigrazione (-30mila entrate, è la promessa), che potrebbero  piacere a Peters.

L’avvocato 72enne, che molti dicono preferisca la pesca alla politica, da parte sua, prende tempo, per ponderare bene da che parte gli convenga stare. “Non prenderò una decisione finché non avrò parlato a tutto il partito – ha detto - ci vorrà del tempo. Siate pazienti e non fate domande”.