Per gli ultimi 27 anni, 21 primi ministri e presidenti di altrettante nazioni affacciate sull’Oceano Pacifico si sono riuniti annualmente nel vertice Apec per discutere di cooperazione economica e libero mercato.
Ma il summit che si è tenuto lo scorso weekend nella capitale peruviana Lima è stato dominato da un nuovo, ingombrante interrogativo la cui risposta potrebbe ridisegnare l’intero sistema di equilibri nel Pacifico: gli Stati Uniti potranno continuare ad essere visti come i portabandiera del libero commercio nella regione?
A preoccupare i capi di Stato e di governo dei 21 Paesi presenti sono i messaggi contraddittori e di difficile lettura lanciati dal presidente eletto Donald Trump durante la lunga campagna per le elezioni presidenziali Usa.
Da una parte, le spinte verso il protezionismo e l’isolazionismo, con le invettive contro i trattati di libero scambio come il TPP e il NAFTA, dall’altra, la volontà dichiarata di espandere la presenza militare americana nella regione pacifica.
Il primo ministro Malcolm Turnbull, che oggi incontrerà il presidente uscente Barack Obama, è disposto a concedere a Trump il beneficio del dubbio: “Ha criticato gli accordi attuali, non ha mai detto di essere contro il libero commercio tout-court” ha affermato Turnbull da Lima.
Per ora, i leader Apec hanno dovuto accontentarsi di congetture e punti interrogativi per quanto riguarda le future politiche americane in materia di commercio estero. Se ne riparlerà l’anno prossimo al vertice in Vietnam, al quale parteciperà anche Donald Trump in qualità di 45esimo presidente degli Stati Uniti.
Per l’Australia la posta in gioco è altissima. Gli accordi di libero scambio con i Paesi asiatici e Washington sono di vitale importanza per la sua economia e, allo stesso tempo, una Washington più aggressiva militarmente nella regione, in particolare in chiave anti-cinese, la metterebbe nella scomoda posizione di dover scegliere tra il suo maggior partner commerciale e il suo più forte alleato nella difesa. Anche per questo Turnbull potrebbe aver scelto finora di assumere una posizione morbida nei confronti di Trump per non precludersi la possibilità di assumere un ruolo di ‘mediatore’ tra la Casa Bianca e Pechino.
Un altro fattore impone a Turnbull di ‘tenersi buono’ il tycoon: l’accordo per il ricollocamento dei rifugiati detenuti a Manus Island e Nauru negli Stati Uniti firmato da Canberra con l’amministrazione Obama. Un accordo che, se non si riuscirà a trasferire le persone già riconosciute come profughe dall’Unhcr prima di gennaio, Trump potrebbe anche decidere di stracciare appena insediatosi alla Casa Bianca.
In Perù, il primo ministro Turnbull ha incontrato il suo omologo malesiano, Najib Razak, per discutere, tra le altre cose, di “immigrazione illegale”, tra speculazioni che il governo australiano stia pensando a un nuovo accordo per il ricollocamento dei rifugiati in Malesia. Nessuna conferma ufficiale è però stata fornita in merito. “Abbiamo avuto successo con la Cambogia e con gli Stati Uniti, discutiamo con altri Paesi e continueremo a farlo” si è limitato a dire Turnbull da Lima, ottenendo l’appoggio anche della vice leader laburista Tanya Plibersek che ha affermato che il suo partito sarebbe favorevole ad un accordo con Kuala Lumpur ma ha invitato il governo a scusarsi per la sua ipocrisia in tema di richiedenti asilo. Un’ipocrisia traspare anche dal definire un “successo” l’accordo con la Cambogia, grazie al quale sono un rifugiato si è stabilito nel Paese asiatico al costo esorbitante di 55 milioni di dollari.
Quel che è certo è che la questione rifugiati è diventata un vero e proprio pantano politico. Il governo è stato criticato internamente ed internazionalmente per le condizioni di vita e la violazione dei diritti umani nei centri di detenzione off-shore che vanno chiusi al più presto. Allo stesso tempo però non c’è alcun modo di fare marcia indietro sulla linea dura sugli arrivi clandestini. Non vuole il governo e non vuole il pubblico, per il quale, in un numero crescente di nazioni, gli immigrati stanno diventando una delle preoccupazioni maggiori. Un problema molto spesso più percepito che reale, ma non meno reale quando si tratta di spostare voti e decidere il risultato di elezioni e referendum.
Non aiutano episodi come quello di venerdì scorso a Springvale, un sobborgo a sud-est di Melbourne, dove un rifugiato Rohingya del Myanmar si è dato fuoco dentro la filiale di una banca causando un’esplosione, con un drammatico bilancio di 27 feriti. L’uomo, appena 21enne, era arrivato in Australia nel 2013 via mare ed era stato tenuto in un centro di detenzione prima di vedersi concesso un bridging visa. Il premier del Victoria Daniel Andrews ha cercato di raffreddare gli animi spiegando che non si tratta di un atto di terrore o di un gesto politico, ma semplicemente di un crimine e di una tragedia. Un membro della comunità birmana di Melbourne che lo conosceva ha riferito che il ragazzo aveva problemi economici e soffriva di forte stress a causa della situazione di incertezza legata al suo visto.
Migranti e disoccupazione crescente possono diventare un mix letale per scatenare il malcontento degli elettori, per questo la stretta sui visti 457 raccoglie ormai il consenso bipartisan di Coalizione e partito laburista, con il ministro dell’Immigrazione Peter Dutton che ha annunciato che la lista delle professioni per le quali possono essere ‘sponsorizzati’ lavoratori stranieri verrà tagliata e Bill Shorten che la scorsa settimana è andato in giro per le zone più ‘a rischio’ per la perdita di posti di lavoro, a promettere “prima gli australiani”.
Nessuna contraddizione, secondo il ministro ombra del Lavoro Brendan O’Connor, intervistato ieri dalla ABC, tra la volontà dei laburisti di diminuire la tassa sui backpacker al 10,5% per incoraggiare i giovani stranieri a venire a lavorare nelle campagne australiane e questo giro di vite sui 457, che scoraggerà l’arrivo di lavoratori dall’estero. “Ci sono chiaramente delle sacche di mercato per cui c’è bisogno di manodopera straniera, mentre in altri settori i datori di lavoro si rivolgono verso lavoratori che vengono da fuori perché sono più facilmente sfruttabili” ha detto O’Connor, sottolineando che il cattivo uso di questo visto ha portato a una minore crescita salariale e ad abusi a danno dei lavoratori temporanei. Quello che il suo partito propone – ha spiegato - sono test sul mercato del lavoro per verificare la presenza di manodopera locale a cui dare la precedenza e una revisione del sistema dei visti (457, ma anche Working Holiday e visti studenti) per contrastare il fenomeno “endemico” dello sfruttamento.