Meno due, meno male. Dai diretti interessati (i candidati in generale, ma soprattutto i due contendenti per la Lodge, Anthony Albanese e Peter Dutton) a tutti coloro che sabato andranno a completare, con il loro voto nel giorno ‘giusto’, il quadro elettorale, il sospiro di sollievo è unanime e scontato: fine della campagna, verdetto - si spera già in serata di sabato - e continuità o nuovo inizio, senza troppe differenze e rischi.

Ultimissimi giorni, dunque, di una campagna tra le più modeste per quanto riguarda i contenuti che si possono ricordare. Non mancano le promesse, ma in pillole (e milioni) in una specie di mercato del voto, senza un vero piano ben coordinato e una certa visione su dove si vuole portare il Paese e perché.

Percorso sicuramente più ben delineato sulla sponda laburista; un procedere a zig zag, invece, con ripensamenti e imbarazzanti inversioni di marcia su quella dell’opposizione, con abbastanza accodamenti sia da una parte che dall’altra per non perdere l’asta dell’offerta a stretti fini elettorali.  

Campagna senza particolari acuti, ambizioni e memorabili slogan: Albanese, perlomeno, è riuscito ad inventarsi quello del ‘non lasciare indietro nessuno e del nessun limite alle ambizioni” da abbinare al privo di fantasia ufficiale del “Building Australia’s Future” (molto simile al “Protecting, securing, building Australia’s future” liberale del 2004); Peter Dutton, invece, è rimasto al palo con quel suo triste “back on track”, tra l’altro copiato dal “Get our country back on track” del partito conservatore neozelandese del 2023.  

Slogan che non ispirano di certo e riflettono una campagna che ha lasciato aperti enormi ‘varchi’ a qualsiasi candidato, che non sia laburista o liberale, per infilarsi in una corsa che si giocherà più che mai sui voti preferenziali. I rilevamenti demoscopici degli ultimi giorni fotografano, infatti, un’Australia disinnamorata dalla politica e dai maggiori partiti che, in fatto di seguito, stanno puntando verso valori storicamente minimi: l’ultimo sondaggio Newspoll (di domenica scorsa) indica consensi diretti per la squadra di governo scesi al 34%, per la Coalizione solo un punto percentuale in più, 35%. Mai, negli ultimi 40 anni di rilevamenti, tanta indifferenza che impone accordi, alleanze, intese dietro le quinte per tagliare per primi la linea del traguardo: alleanze che, sempre secondo i sondaggi, favoriscono i laburisti che, su base bipartitica, si aggiudicano la gara a due, per ora solo virtuale, con un 52 a 48 per cento che potrebbe evitare il ricorso ai supplementari dei negoziati post-voto.

A complicare però i pronostici e la ‘lettura’ delle intenzioni di voto (con milioni di voti già espressi nei seggi aperti la scorsa settimana, con quella che sembra ormai essere una nuova consolidata tendenza iniziata con il Covid, anche se la possibilità del voto anticipato risale agli anni ’90) il fatto che il 48% degli interpellati ha dichiarato che il governo Albanese non merita di essere riconfermato. E così le previsioni si annebbiano un po’ e offrono qualche speranza a Dutton, con la possibilità che le battaglie seggio per seggio possano in qualche modo modificare l’esito indicato da numeri, che non tengono conto delle numerose campagne nella campagna dove la qualità dei candidati e alcuni temi contano più che in altre circoscrizioni: non sarebbe la prima volta che qualche partito vince le elezioni dal punto di vista dei voti, ma le perde nel più importante numero dei seggi conquistati. Occhi puntati quindi, con l’imprevedibilità delle ‘preferenze’, su alcuni collegi con più giocatori in campo: dai verdi (pro laburisti) al Muslim Voice (travestito da Australian Voice, anti-laburista), da One Nation che in qualche seggio favorirà l’Alp ma nell’80 percento dei casi i liberali, fino alla mina vagante - manovrata a suon di milioni (sembra una settantina in questa tornata elettorale) da Clive Palmer - dell’invasivo, in fatto di pubblicità personalizzata, Trumpet of Patriots.

Ci sono poi i precedenti ad intorbidire le acque: nel 2010 i laburisti di Julia Gillard, alla stessa distanza dalle urne (inizio dell’ultima settimana di campagna), fece registrare un voto primario del 38 per cento, la Coalizione guidata da Tony Abbott era al 41 per cento e pochi giorni dopo gli elettori decisero per il pari, risolto poi da tre settimane di negoziati e dalla decisione finale (pro Gillard) degli ex conservatori Tony Windsor e Rob Oakeshott.

Nel 2019, Bill Shorten con il 37 per cento di consensi diretti ad una settimana dal traguardo, rinunciò agli ultimi giorni di campagna, tanto era certo della Lodge: come ben sappiamo, arrivò invece la ‘miracolosa’ vittoria di Scott Morrison sfuggita ai radar dei sondaggi.

Albanese, ovviamente, non ha alcuna intenzione di rallentare e ha iniziato, ieri, dal Circolo nazionale della stampa di Canberra, il suo ‘blitz’ finale: visiterà ancora una volta tutti gli Stati, nonostante sia fermamente convinto di farcela senza alcun bisogno di dover ricorrere all’aiuto di Adam Bandt (leader dei verdi), Andrew Wilkie (indipendente della Tasmania) o delle deputate della squadra di Simon Homes à Court. Dutton è altrettanto certo che, perlomeno, lo svantaggio della Coalizione non sia così marcato come i sondaggi continuano ad indicare e che, grazie alle sfide seggio per seggio, tutto sia ancora possibile. Battaglie all’ultimo voto, specie in collegi detenuti dai laburisti con un margine minimo di vantaggio e con la spesso registrata realtà di una sensazione di disaffezione degli elettori che si sentono ‘dimenticati’ o dati per scontati dal partito di governo.

Il leader dell’opposizione, ostentando ottimismo, ha fatto rilevare anche il grande numero di indecisi che continua ad esserci in questa tornata elettorale: “Uno ogni tre elettori”, ha detto. Mai come questa volta: chi ha già votato aveva le idee chiare, ma un terzo degli elettori è ancora in ascolto dell’offerta e delle opportunità. Ma l’impressione è che Dutton lo dica, ma non ci creda fino in fondo perché l’opposizione si è presentata in questa gara elettorale incredibilmente impreparata in fatto di strategia, dettagli, idee d’alternativa: sconti sulle accise dei carburanti per un anno; riduzione dei livelli di immigrazione senza un piano chiaro e preciso; tagli della pubblica amministrazione (a Canberra); progetto senza dettagli in fatto di costi e benefici sul nucleare; populista presa di posizione sulla ripetitiva forzatura del ‘riconoscimento’ della popolazione indigena all’inizio di ogni evento pubblico; nessuna reale proposta d’alternativa per affrontare il tema-clou dei costi energetici e tanti ‘anche noi’ ad ogni promessa laburista. Un procedere in ordine sparso, con idee qua e là, senza un vero e proprio, ben confezionato, ‘pacchetto’ elettorale.

 Albanese non ispira, ma una linea sottile da seguire, alla fine ce l’ha. Dutton, incredibilmente, dopo tre anni di tempo per compilare un minimo programma d’alternativa, no. Poi, come Morrison nel 2019, magari vince facendo ricorso ad un secondo ‘miracolo’ o, come Abbott nel 2010, forza il pari e un procedere a strappi per i prossimi tre anni, prospettiva a cui si farebbe volentieri a meno.

Prima del via ufficiale della campagna sembrava tutto molto più aperto e possibile: governo in chiara difficoltà, opportunità per l’opposizione di recuperare terreno nella roccaforte laburista del Victoria, qualche possibilità extra nel Western Australia e in Tasmania, numerosi seggi con margini minimi nel New South Wales. Poi diversi errori dello sfidante hanno fatto recuperare terreno al primo ministro permettendogli di riprendere l’iniziativa e aggiudicarsi ai punti la campagna. Se i sondaggi hanno ragione, sabato Albanese potrebbe affiancarsi a Gough Whitlam e Bob Hawke diventando solo il terzo primo ministro laburista capace di ottenere un secondo mandato e il primo dopo Howard e anni di grandi turbolenze interne dei due maggiori partiti che hanno impedito il bis a Kevin Rudd, Julia Gillard, Tony Abbott, Malcolm Turnbull e Scott Morrison.