Nessuna sorpresa né negativa, né positiva: i dati dell’ufficio di statistica hanno confermato che la crescita in Australia è ridotta al lumicino. Ed è così da sei trimestri consecutivi. Il ministro del Tesoro, Jim Chalmers, ovviamente lo sapeva quando, domenica scorsa, aveva puntato il dito sulla Banca centrale, facendo osservare che i tassi d’interesse troppo alti stanno “facendo a pezzi” l’economia.
“Nessuna accusa all’operato della Reserve Bank”, si è affrettato a dire lunedì e a ripetere martedì, commentando i suoi stessi commenti: una semplice constatazione su qualcosa che è davanti agli occhi di tutti quindi nessuna interferenza perché “l’indipendenza decisionale della RBA è fuori discussione”. Un tirare il sasso e nascondere la mano: niente di nuovo in politica.
Meno propenso alla diplomazia il suo vice, Matt Thistlethwhaite, che ha praticamente invitato la Reserve Bank a seguire l’esempio delle banche centrali americana, britannica, canadese e neozelandese e di abbassare il costo del denaro. Poco importa che il ‘resto del mondo’, nel consueto ristretto panorama globale australiano, stia avendo maggiore successo nella lotta all’inflazione che in Australia, un po’ a causa delle incredibili complicazioni auto-create in campo energetico, un po’ a causa degli interventi del governo per controbilanciare l’aumento costante dei prezzi e un po’ per un pauroso calo di produttività, sta mostrando un’eccessiva resistenza, influenzando sia le scelte politiche dell’amministrazione Albanese che quelle monetarie della Banca centrale.
Crescita, nell’ultimo trimestre (chiusura a giugno), che più lenta non si può (0,2%). Su base annuale ora scesa all’uno percento, dopo l’1,1 registrato a marzo. Si tratta del valore più basso dal lontanissimo 1991 (servizio a pagina 11).
Uno sfogo preventivo quello di Chalmers che il primo ministro Anthony Albanese ha difeso parlando di assurde critiche ad una realtà che non ha nulla a che fare con presunte critiche nei confronti della governatrice Michele Bullock: “I tassi d’interesse hanno un impatto sull’economia – ha detto il capo di governo -, sono utilizzati per questo”, quindi “non c’è assolutamente nulla di straordinario” in quello che ha detto il ministro del Tesoro.
Di diverso avviso, ovviamente, l’opposizione. Il ministro ombra delle Finanze, la senatrice Jane Hume, ha infatti parlato di “disperazione” da parte del responsabile del Tesoro che, invece di accusare la Banca centrale, dovrebbe accusare se stesso per quello che sta succedendo. “Jim Chalmers prima ha dato la colpa ai fattori internazionali legati alla guerra in Ucraina per l’alto livello d’inflazione del Paese, poi ha puntato il dito su Philip Lowe ed è andato personalmente a scegliere il suo successore, Michele Bullock”. “Sarebbe opportuno, a questo punto – ha continuato Hume – che, nella ricerca di colpevoli, cominciasse a guardarsi allo specchio”.
Governo insomma che continua ad essere un facile bersaglio: dopo la sicurezza, ora l’economia (che elettoralmente conta molto di più), con l’immigrazione che, pur rimanendo motivo di discordia tra i due maggiori partiti, è di fatto il fattore che continua a permettere all’Australia di rimanere al di sopra della linea di galleggiamento evitando una recessione, ancora possibile – secondo gli esperti economici - ma che, sicuramente non avrebbe la stessa intensità di quelle vissute all’inizio degli anni ’80 e anni ’90 e, brevemente, durante il periodo del Covid.
Come ha fatto notare l’economista Saul Eslake, infatti, i livelli record di nuovi arrivi (anche se su base temporanea, come nel caso degli studenti) hanno permesso di mantenere la domanda al di sopra dell’offerta e un buon livello occupazionale. E, nonostante le intenzioni bipartisan (anche se con diversità ancora non ben chiare sui numeri) di ridurre il numero degli arrivi, difficilmente si arriverà ad una frenata economica tale da causare almeno sei mesi di crescita negativa, tanto più che nel frattempo ci sarà sicuramente un’attesa correzione, verso il basso, dei tassi d’interesse.
Siamo quindi in un momento di transizione post-Covid, sia per ciò che riguarda l’immigrazione che il riaggiustamento economico dopo il boom dell’immediata uscita dalla più grande emergenza pandemica del dopoguerra, e una fase in cui l’opposizione può sbizzarrirsi in accuse varie, anche se gli australiani vorrebbero sentire anche qualche proposta d’alternativa. Proposte che non sembrano mancare dal terzo fronte politico, quello dei verdi, che ogni giorno di più si vedono come i paladini della gente comune, abbandonata dai maggiori partiti. Storia già sentita altrove? In Australia non siamo ancora arrivati a ricorrere alle ambizioni ‘stellari’ di “abolire la povertà”, ma stiamo comunque andando verso una direzione populista, con i sondaggi che continuano ad indicare la probabilità che dalle urne del prossimo maggio esca un governo di minoranza. Il leader degli ambientalisti del nuovo corso, Adam Bandt, ne è talmente convinto che - come abbiamo riportato la scorsa settimana -, ha già preparato la sua lista di richieste per sostenere una seconda amministrazione Albanese, fortemente indebolita, dalla protesta popolare.
Finito insomma l’esperimento Hanson-Palmer del populismo di ‘destra’ e preparativi avanzati del populismo ‘progressista’ proposto da Bandt che, oltre ad avere nel mirino la Coalizione (da sinistra bersaglio facile e scontato), ha messo sotto tiro i laburisti, puntando soprattutto ai delusi del partito - con le sue credenziali sociali ormai annacquate -, e ai giovani più sensibili a certe ambizioni (come clima ed “eccessivi” profitti) e più direttamente coinvolti con la crisi degli alloggi e degli affitti troppo cari.
Una strategia ben precisa quella di screditare i diretti rivali quando si tratta di puntare su nuovi voti e qualche seggio in più, soprattutto nei collegi cittadini di Melbourne, Sydney e Brisbane. Alla Coalizione ci penseranno gli alleati, nelle ambizioni di un indebolimento del tradizionale bipartitismo australiano, del ‘populismo chic’ della squadra teal, sponsorizzata dai multimilionari del Climate 200, Simon Holmes a’Court e Mike Cannon-Brookes.
Accerchiamento completo in un’Australia che cambia e che potrebbe ritrovarsi, il prossimo anno, davvero a fare i conti con una situazione ancora più problematica, dal punto di vista della governabilità, di quella vissuta tra il 2010 e il 2013 dalle amministrazioni Gillard e Rudd (dopo il ritorno per salvare il salvabile). Le avvisaglie di una nuova tendenza, quella cioè di votare contro più che di votare in favore, si sono già registrate nel 2022 quando il voto primario dei due maggiori partiti è sceso, in totale, al 68 percento.
Tra le nuove varianti dell’insoddisfazione che andrà a premiare indipendenti e verdi, la campagna del ‘Muslim vote’ legato alla questione palestinese e alle sempre più estese proteste anti-Israele. Anche in questo caso sono i laburisti nel mirino di questo nuovo fronte di risentimenti e profonde divisioni.
I verdi, con grande opportunismo, stanno cercando di sfruttare l’impazienza degli elettori e la necessità politica di scendere a compromessi offrendo risposte immediate, radicali, piene di certezze, sventolando la bandiera della “nuova politica che mette al primo posto i cittadini”. La grande illusione dei buoni (loro) e i cattivi (tutti gli altri) che sono al servizio delle banche, delle multinazionali, delle compagnie del gas e carbone, delle aziende minerarie, di Coles e Woolworths, dei negazionisti del clima.
“La gente è arrabbiata”, ha detto Bandt. “E ha ragione di esserlo”, perché “l’economia è truccata”. “E chi la trucca? I laburisti e i liberali”, che stanno creando un mostruoso livello di disuguaglianza.
Stiamo, quindi, decisamente passando ad un populismo più sofisticato di quello a cui ci aveva abituato Pauline Hanson: la “malattia” della democrazia che sta colpendo, con vari livelli di intensità e gravità, mezzo mondo, si sta diffondendo rapidamente anche nella ‘lontana’ Australia.