Da domenica a martedì appuntamento mondiale a Kananaskis, vicino a Calgary in Canada e, a margine del vertice del G7, è stato confermato il primo incontro post rispettive vittorie elettorali, tra il primo ministro Anthony Albanese e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Una conferma, ovviamente, sempre aperta all’imprevidibilità dell’umorale capo di governo Usa, che darà la possibilità al leader laburista di affrontare , senza i rischi di salire sul palcoscenico in mondovisione della Casa Bianca, alcune questioni cruciali come i dazi commerciali imposti da Trump su acciaio e alluminio, l’aumento delle spese per la Difesa auspicate dal Pentagono e la sfida strategica posta dalla Cina - che vede l’Australia un po’ in prima linea data la sua posizione geografica - in relazione alla questione, che tiene sempre un po’ tutti con il fiato sospeso, di Taiwan.
Un incontro cercato, ma senza forzature e quell’immediatezza che la Coalizione aveva a più riprese chiesto: un’attesa che invece non fa una piega ed è anzi una dimostrazione di una giusta matura distanza, specie dopo le dichiarazioni ‘tutto stile’ di Trump proprio sui dazi e la processione dei “baciac…” per cercare di farseli ridurre dopo gli annunci di rincari punitivi che stanno continuano a sconvolgere le economie mondiali. Proprio ieri, infatti, la Banca Mondiale ha ridotto di 0,4 punti percentuali le previsioni di crescita globale per il 2025, indicandole al 2,3% - il dato più basso dalla crisi finanziaria globale del 2008 -, poiché l'aumento dei dazi e il maggior livello di incertezza rappresentano un “forte vento contrario” per quasi tutte le economie.
Nella relazione semestrale Global Economic Prospects, la banca ha abbassato le previsioni per quasi il 70% di tutte le economie (compresa quella degli Stati Uniti), rispetto ai livelli previsti solo sei mesi fa, prima dell'insediamento di Trump. Il presidente Usa ha, infatti, stravolto il commercio internazionale con quella serie di aumenti tariffari a singhiozzo che hanno portato l'aliquota effettiva dei dazi statunitensi da meno del 3% a circa il 15%, ai massimi da quasi un secolo, e hanno scatenato ritorsioni da parte di numerose nazioni, la Cina in primis per l’ovvia importanza del colosso asiatico sul mercato globale.
Colloquio quindi fondamentale in Canada per Albanese, ma senza per forza dare l’impressione di esserlo, per disegnare la politica estera australiana e per le sue relazioni con Washington e Pechino.
L'amministrazione Trump ha reintrodotto dazi significativi sulle importazioni di acciaio e alluminio, imponendo una tariffa di base del 10% a livello globale, passata a febbraio al 25%, e ora al 50%. L'Australia, nonostante non esporti grossissime quantità dei metalli in questione (il valore dell’export nel settore, per il 2024, è stato di circa 265,75 milioni di dollari) subirà delle conseguenze negative più indirette che dirette (la ditta australiana BlueScope Steel’s North Star che opera in in Ohio sta addirittura beneficiando delle nuove imposte di Trump) con aumenti dei prezzi di altri beni d’importazione, non solo americani, legati alle reazioni internazionali ai dazi. Tutto legato, tutto da mettere in discussione continuando, di fatto, il dialogo già iniziato a distanza attraverso comunicazioni dirette, telefoniche, con il presidente statunitense cercando esenzioni e discutendo le più ampie implicazioni di questi dazi per la dinamica del commercio globale. Finora però, come sappiamo, gli Stati Uniti hanno mostrato una limitata flessibilità, complicando la posizione dell’Australia che dovrà mettere sul tavolo delle trattative qualche contropartita per evitare che l’incontro di Kananaskis si risolva con un nulla di fatto.
Il ministro del Commercio, Don Farrell, ha comunque già avviato un dialogo con i rappresentanti commerciali statunitensi, con l’obiettivo di affrontare l’impatto delle nuove imposizioni fiscali sulle industrie australiane.
Dazi, ma anche Difesa nell’agenda dell’incontro Trump-Albanese: in questo caso il primo ministro sembra essere fermo nella sua posizione di un impegno al di sotto di quello sollecitato dagli Usa, ma allo stesso tempo disposto ad offrire un’apertura a correggere il percorso di spesa prefissato (2,33% entro il 2033-34, invece del 3,5% del Pil auspicato da Washington), se ritenuto necessario da un evolversi della situazione internazionale nel contesto della sicurezza.
Albanese ha respinto sia le accuse dell’opposizione di un approccio non in linea con le esigenze del momento, sia le lamentele e gli scontati inviti a ‘fare di più’ mossi dalle alte sfere militari del recente passato (come l’ex capo delle forze armate Sir Angus Houston e l’ex segretario della Difesa, Dennis Richardson), sottolineando la necessità di una risposta equilibrata che tenga conto sia degli interessi nazionali che degli impegni internazionali. E ha ribadito - anche martedì scorso nel suo primo intervento post-elezioni al Circolo nazionale della stampa di Canberra -, la possibilità di maggiori investimenti nel settore, “se ritenuti necessari” sottolineando però di pensare che sia sempre “l’Australia che debba decidere quanto spendere per la propria Difesa. Tutto qui”. Il primo ministro ha quindi dichiarato di rimanere perfettamente in linea con quanto già affermato sia dal ministro responsabile del settore, Richard Marles, che dal ministro per i Servizi della Difesa, Pat Conroy, che la scorsa settimana hanno ribadito che il governo è sempre pronto a dialogare con le parti interessate per ciò che riguarda futuri necessari incrementi degli investimenti militari.
Il prossimo incontro con il presidente Trump rappresenta, quindi, un’opportunità per l’Australia di riaffermare il proprio impegno per la sicurezza regionale, pur rivendicando la propria autonomia nelle decisioni in materia di difesa.
Chiaramente il tema è fortemente legato alla crescente assertività della Cina nella regione dell’Indo-Pacifico, che ha sollevato timori di potenziali conflitti data la nota posizione del leader cinese Xi Jinping al riguardo di Taiwan, ritenuta una provincia cinese destinata ad essere prima o dopo riannessa.
Gli Stati Uniti, pur non riconoscendo formalmente Taiwan come uno stato indipendente, hanno una forte alleanza con l’isola, sancita dal Taiwan Relations Act, che impone agli Stati Uniti di difendere Taiwan in caso di aggressione. Questo impegno ha avuto un ulteriore rafforzamento con l’amministrazione Trump, che ha intensificato il supporto politico e militare all’isola, ma ha anche sollevato preoccupazioni riguardo a un possibile disimpegno statunitense nella regione. Gli Stati Uniti hanno espresso preoccupazioni sulle intenzioni della Cina, invitando gli alleati come l’Australia a adottare una posizione più decisa. Ma Albanese, anche nel suo intervento di martedì davanti ai giornalisti a Canberra, ha ribadito la necessità di mantenere un approccio più misurato, enfatizzando il dialogo diplomatico con Pechino e la stabilità e cooperazione regionale. La posizione del primo ministro riflette la volontà di mantenere relazioni costruttive con la Cina, che rimane il principale partner commerciale dell’Australia, pur rispettando gli impegni con gli Usa e gli altri paesi dell’area dell’Indo-Pacifico per la sicurezza.
Un esercizio di grande equilibrio, dato il continuo aumento delle tensioni internazionali, ma una saggia necessità di mantenere un ruolo strategico tra i suoi principali partner per ciò che riguarda la sicurezza da una parte e gli interessi economici dall’altra, tutelando allo stesso tempo gli interessi internazionali, contribuendo in modo fondamentale alla stabilità regionale e globale.