Questa volta le differenze ci sono e i fronti di scontro si stanno allargando, spaziando dall’immigrazione alla sicurezza nazionale, dall’economia all’energia, dalle relazioni industriali alle miniere, dalla lotta all’inflazione ai rapporti con la Reserve Bank. Il leader dell’opposizione Peter Dutton ha capito che circostanze ed evitabili errori hanno indebolito ben oltre alle aspettative il governo e l’autorità del primo ministro Anthony Albanese e ha intensificato gli attacchi e le prese di distanza tra i due maggiori schieramenti politici. Ma senza perdere di vista la realtà dei seggi da conquistare (non è facile passare dagli attuali 55 ad almeno 76) e la tradizionale tendenza degli australiani a riconoscere qualche attenuante ad un nuovo governo offrendo, magari a denti stretti, una seconda possibilità, Dutton non si tira indietro nel sottolineare un altro elemento di separazione e rischio: la strana coppia verdi-teal.
Una coalizione non dichiarata che si è inserita, con sempre maggiore intraprendenza e ambizioni, sulla scena politica, al punto di poter fare veramente la differenza quando gli australiani saranno chiamati ad emanare il prossimo verdetto alle urne. Un’accoppiata destinata a sostenere, in caso di necessità numeriche, solo la causa laburista, rendendo ancora più impervia la sfida di Dutton: nessun negoziato quindi, nessun compromesso per ottenere le chiavi della Lodge, solo i partner di sempre (i nazionali) o non si fa niente.
Ed è proprio questo il messaggio che il leader dell’opposizione, ha ribadito alla conferenza del Mineral Council of Australia tenutasi a Canberra, prospettando la peggiore ipotesi possibile per il settore: “Un ritorno dei laburisti sarebbe già grave abbastanza”, ha affermato Dutton, ma sarebbe ancora più drammatico se Albanese, come indicano i sondaggi, dovesse ritornare alla Lodge accompagnato da Adam Bandt e dalla squadra teal, sempre più capitanata dalla rappresentante del seggio di Warringah, Zali Steggall che, a nome delle colleghe del partito che non esiste solo sulla carta, ha lanciato un ultimatum (alla base di futuri possibili negoziati per un governo di minoranza) al capo di governo per fissare un traguardo del 75% di riduzione delle emissioni entro il 2035. Nessuno sconto, nessuna timidezza climatica “perché - sostiene la deputata di Climate 200 - il tempo stringe e l’emergenza del surriscaldamento del Pianeta si sta facendo sempre più drammatica”.
Gli accordi di Parigi effettivamente richiederebbero una decisione su futuri impegni intermedi, verso quota zero del 2050, in febbraio del prossimo anno, ma il primo ministro sembra intenzionato a rinviare nuovi annunci al dopo elezioni, mentre Dutton non sembra avere, al momento, alcuna intenzione di fissare alcun traguardo ‘elettorale’ neanche per il vicino 2030. Dopo Steggall sull’argomento sono intervenute, con altrettanta determinazione, anche le ‘compagne di squadra’: Sophie Scamps (seggio di Mackellar), che ha invitato entrambi i maggiori partiti ad essere onesti e aperti nei confronti degli australiani sui loro traguardi climatici; Kate Chaney (seggio di Curtin, ex roccaforte liberale del Western Australia) che ha indicato la necessità di inviare un chiaro messaggio agli investitori per poter fare dei piani “per l’economia del futuro”; Monique Ryan (collegio di Kooyong) che ha avvertito sia Albanese che Dutton che i ‘suoi’ elettori meritano di più di quello che i due leader e i due partiti stanno offrendo in campo ambientale; Kylea Tink (North Sydney) che ha invece parlato di un “chiaro schiaffo alle future generazioni” se non si avrà il coraggio di annunciare nuovi obiettivi di riduzione dei gas serra per il 2035, come previsto dall’accordo di Parigi, entro febbraio; mentre per Zoe Daniel (Goldstein), il governo dovrà prima di tutto mantenere i suoi impegni di riduzione delle emissioni del 43 per cento rispetto al 2005 entro il 2030 e poi puntare in alto per il 2035 per “il bene della nostra comunità, della nostra economia e dei nostri figli”. “Il 75% è un obbligo – sostengono quasi in coro -, non una possibilità e il 64% precedentemente indicato non è più sufficiente”.
Per questo Dutton ieri ha ripreso in mano, indirettamente, il tema, rivolgendosi ai leader del settore minerario promettendo, remando controcorrente, di “mettere il turbo” a più di 420 nuovi progetti per diventare “il miglior amico che il settore delle risorse naturali abbia mai avuto”.
“Voglio vedere più esplorazioni, più estrazioni minerarie, più gas e più camion in azione”, ha dichiarato il leader dell’opposizione, che ha cercato di “tranquillizzare” le aziende che operano in un settore-chiave per l’economia australiana. Lunedì scorso, infatti, la direttrice del Minerals Council, Tania Constable, aveva attaccato il governo per le riforme delle relazioni industriali annunciate che, secondo lei, andranno ad indebolire ulteriormente l’industria mineraria, già penalizzata da quelli che ha definito autentici ‘raid finanziari’ apportati dagli Stati sugli introiti netti delle compagnie , dalle onerose nuove regole ambientali e dagli altissimi costi energetici.
Un botta e risposta a distanza ieri a Canberra tra Dutton e la responsabile delle Risorse, Madaleine King, che fa seguito all’acceso dibattito tra il governo e la BHP su regole del lavoro e profitti, che – ha ricordato la presidente del gigante minerario, Geraldine Slattery - attraverso le sue imposte (circa 14,5 miliardi l’anno) copre circa la metà della spesa federale per gli ospedali. Uno scontro che mette in evidenza che le risorse minerarie saranno al centro del dibattito politico fino alle urne, specie nei due Stati-chiave, sia per l’industria in questione che per l’esito elettorale, del Queensland e del Western Australia.
Per questo Dutton insiste ed ipotizza il ritorno della famosa imposta extra sui profitti minerari, abbozzata ai tempi del governo Rudd, e della tassa sulle emissioni di carbonio imposta invece dall’amministrazione Gillard e abolita, come promesso nella campagna del 2013, da Tony Abbott.
Due spauracchi che i laburisti smentiscono (anche se specie la ‘carbon tax’, prima o dopo, in qualche forma ritornerà e una maxi-imposta sui profitti minerari è nel pacchetto-governo di minoranza dei verdi) mentre Dutton, dato che su questo punto gli conviene, sforna persino numeri a sostegno della “teoria del miglior amico” delle aziende minerarie, con i loro 525 miliardi pronti in investimenti che aspettano il via libera di Canberra, i 100 mila posti di lavoro che genererebbero nel campo delle costruzioni e gli altri 55 mila lavori a lungo termine nel settore in questione.
Più di quattrocento progetti pronti a partire, molti dei quali coinvolgono gas e carbone tanto da far dimenticare, secondo King, qualsiasi possibilità di arrivare al 43 per cento di riduzione delle emissioni entro il 2030, come promesso dal governo Albanese.
“Miliardi per i miliardari” lo slogan immediato dei laburisti nel caso di successo, il prossimo anno, della Coalizione e “scordiamoci le attenzioni ambientali e il rispetto di alcune aree particolarmente importanti per la comunità aborigena” con un’amministrazione liberal-nazionale.
Uno scambio duro di accuse che mette in evidenza quanto la tensione fra le parti si sia alzata e quanto il governo stia ‘soffrendo’ le differenziazioni sottolineate dall’opposizione, che continua a battere anche il ‘ferro caldo’ delle diversità di opinione tra l’esecutivo e la Banca centrale sull’obiettivo inflazione. Non è che la Reserve abbia totalmente ragione, e le accuse non tanto velate all’operato dell’amministrazione laburista non hanno sicuramente aiutato la situazione, ma non sono state particolarmente felici nemmeno le considerazioni a voce alta di Jim Chalmers su una ripresa fatta a pezzi dalla RBA, e ancora meno quelle ancora più critiche del presidente nazionale del partito laburista ed ex responsabile del Tesoro Wayne Swan. Una politicizzazione del problema inflazione e dei rimedi, che ha fatto il gioco dell’opposizione su indipendenza, interferenze, riforma da approvare o non approvare sul ruolo della Banca centrale, gli errori commessi nell’era del governatore Philip Lowe - che hanno complicato il lavoro di Michele Bullock - e indubbie necessità politiche che non sono perfettamente in linea con le misure monetarie adottate dalla RBA. Forse sarebbe stato il caso di parlarne prima, a porte chiuse, senza imporre alcuna linea da una parte o dall’altra. E’ stato fatto nel passato, e non ci sono stati drammi di alcun tipo su responsabilità e rispetto dei ruoli. Così, invece, siamo arrivati a spiacevoli differenze messe in vetrina che hanno irritato e imbarazzato un po’ tutti e indebolito soprattutto l’immagine del governo per ciò che riguarda le sue capacità di gestire l’economia. Un grave rischio elettorale, ben superiore all’immigrazione, e una possibile riduzione dei tassi a febbraio non aiuterà più di tanto a far cambiare opinione, se poi arriva addirittura una correzione verso l’alto del costo del denaro, che la Bullock continua a non escludere, allora Dutton potrebbe cominciare seriamente a pensare a quel famoso miracolo del 2019.