Quanti danni si possono fare in 48 ore? Tantissimi, specie quando si naviga a vista o si recita senza copione, improvvisando. E così si è passati dalla carta bianca agli esperti di qualsiasi Dipartimento governativo di analizzare e proporre qualsiasi cosa - per dimostrare che sono seriamente impegnati e considerati -, al non rientra nei nostri piani, fino ad arrivare al forse è meglio che di questo parli il ministro del Tesoro, Jim Chalmers, appena arrivato in Cina. Da Launceston a Pechino per cercare di capire se il governo sta effettivamente prendendo in considerazione la proposta dei verdi e della squadra teal di mettere le mani sul ‘negative gearing’ e sull’imposta sugli utili di capitale. Forse sì, forse no, non è in agenda, con l’ammissione finale che è stato Chalmers a commissionare ai propri funzionari un esame particolareggiato delle agevolazioni fiscali a tutto campo.
Guarda caso una revisione che riguarda da vicino il settore che sta diventando sempre più il cavallo di battaglia dei rivali diretti su certi fronti, ma anche i possibili partner di governo in caso di una perdita di consensi e collegi che forzerebbe un’amministrazione di minoranza: case, affitti e investimenti che, secondo gli accalappia voti di protesta, sono il problema numero uno dei giovani d’Australia. Verdi che hanno perso un po’ di smalto ambientalista e che, sotto la guida del militante Adam Bandt, sono sempre più coinvolti nel sociale, nelle grandi crisi globali (molto più Gaza e multinazionali che Ucraina) e già si vedono a dettare le regole del gioco, dopo il voto previsto nella prima metà del prossimo anno.
Quarantott’ore durante le quali è stato detto di tutto, ma soprattutto niente di preciso sull’agenda laburista del 2025 per ciò che riguarda la perenne tentazione di modificare qualcosa che non è mai piaciuto alla sinistra del partito (ora sempre più spiazzata dai verdi): nel 1985 l’allora ministro del Tesoro, Paul Keating, aveva trovato il coraggio di abolire quegli sconti sulle ‘perdite’ sugli investimenti immobiliari, ma oltre alla protesta diffusa è stata soprattutto la realtà di una forte diminuzione dell’offerta immobiliare e un’impennata degli affitti a convincere il pragmatico Bob Hawke a riportare tutto come prima meno di due anni dopo. Nel 2019 è stato Shorten a pensare che era venuto il momento di riprovarci, con l’aiuto di quello che sembra essere diventato lo specialista delle scommesse sui cavalli sbagliati, Chris Bowen. Bocciatura alle urne (ovviamente non solo per questo, ma indubbiamente anche per questo) e Albanese ha ‘capito’ e ha subito scaricato l’idea del riprovarci, fino alla scorsa settimana quando ha detto, non detto, ritrattato, insistito prima di passare la patata bollente a Chalmers che, dopo i tentativi del “non rientra nei nostri piani”, ha ammesso di essere stato lui a commissionare lo studio in questione anche se, quando si parla di case e investimenti nel settore, le priorità sono altre. Riposizionamento bis? Considerando che il giochino è già stato fatto sulla terza fase delle riforme fiscali che erano state annunciate dalla Coalizione e approvate con l’appoggio dei laburisti, il record credibilità di Albanese e Chalmers quando si tratta di assicurazioni di impegni presi e priorità varie non è dei migliori: la Coalizione lo sa e lo farà notare con sempre maggiore intensità, mano a mano che ci avviciniamo alla campagna vera.
Nel frattempo il ministro del Tesoro è andato a Pechino: prima visita di colui che ha in mano le chiavi delle casse del Paese da sette anni a questa parte. Non giovedì di questa settimana come precedentemente indicato, ma giovedì scorso e, guarda caso, in un altro arco di 48 ore in cui sono cambiate tante cose perfino in Cina. “Fortunate circostanze”, ha detto Chalmers - parlando in occasione della missione intrapresa per far ripartire i lavori dell’Australia-China Strategic Economic Dialogue, interrotti nel 2017 -, quelle che lo hanno visto a Pechino proprio nel giorno in cui il leader cinese Xi Jinping annunciava un maxi-intervento governativo per rilanciare la crescita: 165 miliardi di dollari versati nelle sue grandi banche statali per sostenere l’economia in difficoltà. Secondo quanto riporta Bloomberg, citando fonti vicine al dossier-Cina, l’operazione porterebbe a mobilitare fino a 1.000 miliardi di yuan (circa 165 miliardi di dollari) per rafforzare i player primari del credito statale, nel mezzo di un’economia stagnante alle prese con la crisi immobiliare, l’invecchiamento della popolazione, i deboli consumi, i rischi di deflazione e la disoccupazione giovanile che negli ultimi mesi è schizzata oltre al 18%.
La misura sarebbe attuata principalmente grazie alle risorse dell’emissione di “nuove obbligazioni sovrane speciali”, malgrado i dettagli non siano del tutto definiti. Ma Chalmers ha, comunque, parlato di iniezioni di capitali che non possono che far bene all’economia del Paese e, di conseguenza, anche all’Australia perché “qualsiasi variazione in positivo della crescita cinese ha diretti effetti sulle nostre condizioni economiche”, ha spiegato il ministro del Tesoro.
La serie di mosse annunciate, con il pacchetto di misure variegate a sostegno dell’economia da parte della Banca centrale cinese (Pboc) che include il taglio di tassi primari e l’allentamento delle riserve obbligatorie delle istituzioni finanziarie, sono state accolte con favore dagli investitori, tanto che le Borse di Hong Kong, Shanghai e Shenzhen sono risalite immediatamente di oltre il 5% dopo un lungo periodo di depressione.
Chalmers, oltre a commentare sulle tasse australiane, a Pechino è stato costretto a chiarire la posizione dell’Australia anche sulla tecnologia adottata dalle case automobilistiche cinesi sui loro sempre più popolari veicoli elettrici. Gli Stati Uniti si preparano, infatti, ad attuare una nuova misura di protezione per il settore delle quattro ruote. Il Dipartimento del Commercio americano, ha ufficializzato una proposta, che era già stata anticipata nei mesi scorsi, che punta ad attuare un blocco alle vendite di auto connesse, nel caso in cui questi veicoli siano dotati di componenti hardware o software realizzati in Paesi ostili come la Russia ma, soprattutto, la Cina. La crescita dell’industria delle quattro ruote cinese spaventa gli Usa anche sul fronte democratico.
Il blocco alle auto connesse è motivato dai presunti rischi derivati dalla gestione dei dati da queste auto. La questione viene vista come un caso di sicurezza nazionale e pertanto il governo ha fatto sapere che si potrebbe arrivare ad un blocco completo alle vendite delle auto cinesi negli Stati Uniti, diventando così una misura di protezionismo molto efficace e in grado di tutelare l’industria automotive locale. Una linea di pensiero bipartisan in America, che il ministro del Tesoro australiano non accetta. Nessun bando quindi da parte dell’Australia: “Non seguiremo l’esempio di Washington – ha detto Chalmers – ma indubbiamente scambieremo informazioni con gli Usa al riguardo, perché la sicurezza è fondamentale, ma continueremo a prendere qualsiasi decisione in questo campo in perfetta indipendenza seguendo il parere dei nostri esperti”.