Troppo logico e poco politico per diventare realtà: l’ex ministro della Difesa, Joel Fitzgibbon, non si smentisce neanche ora che, per scelta personale, è fuori dai giochi. E, come ha sempre fatto anche quando faceva parte della squadra laburista al governo o all’opposizione, ha fatto una proposta fuori dal coro, affidandosi al buon senso, consapevole delle infinitesime possibilità di essere ascoltato. L’ex rappresentante del seggio di Hunter, in un articolo d’opinione pubblicato sul quotidiano The Australian, ha esortato sia Anthony Albanese sia Peter Dutton a fare quello che, a livello federale, non è mai stato fatto ma che, vista la situazione che si prospetta, sarebbe il caso di fare. Di concordare cioè, prima delle elezioni, di sostenere, per la formazione di un governo di minoranza, il partito che ha ottenuto il maggior numero di seggi.
Niente compromessi, niente negoziati con formazioni minori: sostegno garantito, secondo Fitzgibbon, per poter governare senza patemi d’animo almeno per ciò che riguarda l’approvazione del bilancio e la fiducia. Diciotto mesi di gestione garantiti, concordando in partenza un pacchetto di riforme economiche sedendosi attorno ad un tavolo programmatico nell’interesse nazionale assieme ai premier dei vari Stati e ai leader industriali, sindacali e della società civile. Un’intesa che permetterebbe ai laburisti e alla Coalizione di varare le riforme invocate da tempo, specie ma non solo in campo fiscale, che entrambi i maggiori schieramenti politici vorrebbero, ma che considerano politicamente troppo rischiose per proporle in questi tempi decisamente cambiati rispetto all’era Hawke-Keating-Howard.
L’ex capogruppo laburista, durante l’amministrazione Gillard-Rudd, sa esattamente cosa significa dover governare senza poter liberamente decidere: ha vissuto in prima persona l’esperienza del 2010-13, con la continua necessità di negoziare ogni mossa con i verdi e gli indipendenti. “È stato semplicemente brutto” ha scritto, facendo osservare che “purtroppo siamo sulla stessa strada” di un pareggio elettorale e la prospettiva, quindi, di un nuovo governo di minoranza sostenuto dai verdi, dalla squadra (secondo lo sponsor ufficiale, l’organizzazione ambientalista ‘Climate 200’, non squadra) teal e da qualche indipendente.
Con i sondaggi che indicano che nessuna delle due parti sembra in grado di ottenere la maggioranza, l'ex ministro (non nuovo nell’esprimere punti di vista non necessariamente in linea con il partito) ha ammesso che sia i parlamentari laburisti che quelli della Coalizione probabilmente considerano un’eresia l’idea di aiutare l’altro partito a formare un governo, ma sostiene che l’opzione sia preferibile rispetto a un "parlamento disfunzionale che paralizzerebbe gli investimenti" e forzerebbe un procedere a strappi con l’impressione generale, come è già successo all’amministrazione Gillard, che ogni legge varata non sia esattamente quella che aveva in mente.
“Non c’era alcun credito”, ha fatto osservare anche l’ex ministro Greg Combet, “gli elettori erano convinti che stessimo portando avanti un’agenda politica che non era la nostra”.
Avvisi, consigli, un’opzione dettata dall’esperienza e dalla logica che non porteranno da nessuna parte: Albanese e Dutton non si siederanno attorno ad alcun tavolo a disegnare il primo governo di minoranza sostenuto dai liberali o dai laburisti. E qualsiasi riforma seria rimarrà al palo, a patto che ci sia nei programmi dei due maggiori schieramenti qualche idea in più di quelle finora proposte: ovvero un procedere all’insegna di quanto già visto in fatto di timidezza programmatica di chi già c’è e di continuare più o meno sulla stessa strada, con ovvii ritocchi ma senza particolari scossoni, da parte di chi sicuramente vorrebbe, ma sarebbe sorpreso di trovarsi da solo sul ponte di comando dopo il primo, secondo o terzo sabato di maggio.
Mentre i verdi hanno già escluso il sostegno alla Coalizione in caso di impasse post elettorale, i parlamentari indipendenti e le deputate teal hanno lasciato aperta alla possibilità di sostenere entrambe le maggiori formazioni politiche per formare un governo, anticipando però già alcune difficoltà di partenza: i deputati indipendenti Andrew Wilkie ed Helen Haines hanno infatti dichiarato di non voler firmare alcun accordo a lungo termine per garantire la fiducia e l'approvazione del bilancio a un governo di minoranza; mentre le deputate teal e i verdi hanno invece già segnalato la loro intenzione di non fare sconti per ciò che riguarda la fine dello sviluppo di estrazione e uso di gas e carbone e la necessità di obiettivi climatici più ambiziosi, aumentando quindi la possibilità che gli investimenti nel settore delle risorse vengano ridotti.
L’amministratore delegato di Woodside Energy, Meg O’Neill – il cui progetto, del valore di 30 miliardi di dollari, di estensione del North West Shelf, nel Western Australia, sembra essere il più a rischio in caso di un governo di minoranza – in una recente intervista ha dichiarato che un’amministrazione condizionata da verdi e teal sarebbe “francamente... un incubo". Ma è la realtà che abbiamo davanti se i sondaggi hanno ragione, perché, nonostante l’aiuto che potrebbe arrivare, su base personale, per Albanese dall’ex ciclone Alfred - data l’indubbia autorità, visibilità e attenzione mostrata nei confronti degli abitanti delle aree colpite dall’emergenza – e la possibilità di interventi finanziari extra che si presenta con il budget che il ministro del Tesoro, Jim Chalmers, presenterà fra un paio di settimane, il governo avrà più di qualche difficoltà a mantenere il suo esiguo margine di vantaggio (77 seggi su 151) ottenuto nelle elezioni del 2022.
Le recentissime elezioni statali del Western Australia sono un bonus extra per il morale dei laburisti, ma quando si scende nei dettagli del voto si registra, nonostante la schiacciante vittoria del premier Roger Cook, che un voto di protesta c’è stato nei confronti dei laburisti, ma che le perdite non si sono automaticamente trasformate in consensi per l’alternativa liberale. La tendenza a cercare altri tipi di risposte, anche se monotematiche, vicine a casa insomma sembra essere abbastanza diffusa: per questo Simon Holmes à Court, anche ieri in un suo intervento al Circolo nazionale della stampa di Canberra, ha ribadito che non è sua intenzione creare nessun nuovo partito, fare politica in prima persona, iniziare o coordinare campagne elettorali, ma è determinato invece a continuare a sostenere, via ‘Climate 200’, indipendenti che abbiano a cuore l’ambiente, la lotta ai cambiamenti climatici, l’integrità a livello parlamentare e l’uguaglianza di genere. E così il movimento teal, secondo il miliardario ambientalista, cresce spontaneo, senza particolari regole e confini di partito, e si espande, guarda caso, soprattutto negli elettorati della Coalizione o in quelli che la Coalizione si augura di poter strappare ai laburisti, quindi un avversario in più per Dutton & Co nei collegi di: Bradfield, Moore, Monash, Sturt, Wannon, Cowper, Calare, Deakin, Dickson, Solomon e Gilmore oltre alla difesa delle recenti conquiste di Wentworth, Mackellar, Warringah, Goldstein, Kooyong, Curtin, Indi e Mayo. Nel 2022 ‘Climate 200’ ha sponsorizzato in varie misiure 23 candidati ‘indipendenti’, 11 dei quali sono approdati in un Parlamento, che non è mai stato così frammentato. In maggio la sfida sarà ancora più consistente: 35 tra parlamentari e aspiranti tali della ‘squadra non squadra’ teal dell’ imprenditore che fa capo a ‘Climate 200’ che, nel suo sito, chiede donazioni per aiutare gli ‘indipendenti’ a combattere contro (con tanto di foto del leader dell’opposizione accanto a Clive Palmer) “la bomba di carbonio da due miliardi di tonnellate di Dutton”.
I laburisti piacciono di meno che nel 2022, i liberali non convincono anche perché - a questo punto abbastanza inspiegabilmente - Dutton non ha giocato ancora alcuna reale e convincente carta d’alternativa e così la prospettiva di un secondo mandato di un indebolito Albanese, con la condizionale firmata da Alan Bandt, teals varie, Wilkies, Haines e magari qualche nome nuovo, sembra sempre più essere il futuro che il Paese ha davanti. E una cosa è certa: al tavolo di Fitzgibbon non si siederà nessuno.