La notizia della morte di Jimmy Cliff ha attraversato il mondo come un improvviso cambio di tempo nei Caraibi: rapido, inatteso, e capace di lasciare un silenzio diverso nell’aria. Con lui non scompare soltanto un gigante del reggae, ma una voce che per oltre sessant’anni ha insegnato cosa significa trasformare la fatica in canto, il dolore in speranza, la strada in destinazione.
Per molti, è stato la porta d’ingresso in una Giamaica autentica, lontana dalla cartolina esotica. La sua voce, alta e luminosa, aveva una fragilità controllata che sapeva aprirsi d’improvviso, come un’onda che si infrange su una scogliera. Era una voce che raccontava una vita difficile, cominciata nel 1944 nella parrocchia di St. James, tra povertà e improvvisazioni musicali fatte con tutto ciò che suonava. Una voce che poi sarebbe diventata il suono stesso dell’isola.

Quando, nel 1972, apparve sullo schermo come Ivan Martin in The Harder They Come, il mondo vide in un solo uomo la dimensione intera del sogno giamaicano: grinta, disperazione, fierezza, ironia e quella luce negli occhi che non si spegne. Cliff non recitava, viveva. E la colonna sonora del film, con brani come You Can Get It If You Really Want e Many Rivers to Cross, divenne subito un manifesto mondiale di resilienza. È difficile trovare un ascoltatore che non abbia sentito, almeno una volta, che quelle parole lo riguardavano personalmente.La sua carriera è stata piena d’incontri, attraversamenti e rinascite: dal primo successo di Hurricane Hattie ai palchi internazionali, dalle contaminazioni funk e pop di Reggae Night all’energia solare di I Can See Clearly Now, che ha portato il suo ottimismo persino nei film più amati dalla generazione degli anni ’90. Jimmy Cliff non ha mai smesso di cambiare pelle restando sempre Jimmy Cliff: con quella grazia contagiosa che sembrava dire che sì, il mondo poteva anche essere duro, ma non era invincibile.

Eppure il vero segreto della sua grandezza non stava solo nei dischi o nei premi. Stava nel suo umanesimo semplice. Cliff non ha mai tradito la convinzione che la musica dovesse essere un bene comune, un luogo dove incontrarsi senza barriere. Ha cantato per la libertà, ma anche per l’allegria; per la giustizia, ma anche per l’amore. In un panorama musicale spesso frammentato, la sua era una lingua universale: bastavano quattro note per sentirsi parte di qualcosa.

Oggi che la sua voce si è spenta, rimane la sua eco. Rimane il conforto di quelle melodie che sembrano riaccendersi da sole quando più ne abbiamo bisogno. Rimane l’immagine di un uomo che ha portato la Giamaica nel mondo e il mondo nella Giamaica. Rimane la certezza che Reggae Night non appartenga solo alle notti felici del passato, ma a quelle che continueranno a vivere ogni volta che un ritmo reggae accende l’aria. È una promessa che Jimmy Cliff ha trasformato in realtà.