Era nell’aria da mesi, è entrato già, seppur sporadicamente, nel dibattito di questa campagna un po’ sonnacchiosa, ma solo negli ultimi giorni, tra gli ultimi comizi, l’ultimo dibattito televisivo e i tanti australiani che hanno già votato, la campagna elettorale ha ritrovato un tema che sarebbe potuto essere ancora più centrale: la difesa nazionale. Un argomento che è rimasto sullo sfondo, coperto da promesse di sgravi fiscali, interventi a supporto del sistema sanitario e al settore immobiliare e, in generale, promesse e manovre destinate a dimostrare la volontà di gestire le pressioni del crescente costo della vita. Eppure, la pressione che arriva da un contesto internazionale sempre più minaccioso e incerto, non poteva non fare emergere il tema della sicurezza nazionale e portarlo sotto i riflettori.

Vedremo come si evolverà la drammatica situazione della guerra in Ucraina e a cosa porterà il simbolico ma significativo incontro all’interno della Basilica di San Pietro tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky, entrambi a Roma per partecipare alle esequie di Papa Francesco, ma, posto che possa accadere qualcosa di positivo nelle prossime ore, non c’è da aspettarsi che la situazione possa vedere, improvvisamente, Mosca perdere quell’istinto ‘autoritario’ che tanta incertezza ha creato nel contesto geopolitico. A questo si aggiunga la militarizzazione sempre più evidente dell’Indo-Pacifico, con la Cina a far la ‘voce grossa’ ogni qual volta si tratti di far sentire la propria presenza nella regione.

In questo scenario, i principali contendenti stanno offrendo visioni diverse, ma non contrapposte in modo assoluto. Entrambi riconoscono la gravità della situazione. Divergono, però, nei tempi di intervento, nelle priorità e nell’approccio al tema della difesa.

Anthony Albanese si presenta al voto forte di un mandato che ha visto l’Australia recuperare terreno internazionale, specialmente nei rapporti con gli Stati Uniti e i partner dell’AUKUS. Il suo governo ha confermato l’impegno per l’acquisizione di sottomarini a propulsione nucleare, ha rilanciato investimenti in settori strategici come la sicurezza informatica, e ha ribadito l’intenzione di aumentare gradualmente la spesa per la difesa, fino al 2,3% del PIL nei prossimi anni.

Tuttavia, non sono mancate le critiche. Il piano del governo uscente appare infatti troppo diluito nei tempi: gli investimenti più consistenti sono previsti non nell’immediato, ma dal 2027 in avanti, lasciando il Paese scoperto nei prossimi quattro-cinque anni che, facendo tutti i debiti scongiuri, potrebbero però essere decisivi. Alcune scelte, come il taglio o il rinvio di programmi chiave in termini di capacità difensiva hanno sollevato dubbi sulla reale prontezza delle forze armate australiane.

Il governo ha difeso le sue decisioni parlando di “dure ma necessarie priorità” e di un approccio “responsabile” in un contesto economico complicato. Albanese ha ricordato che difesa e sicurezza non possono essere slegate dalla sostenibilità dei conti pubblici e ha ammonito contro una corsa agli armamenti dettata dall’ansia invece che da scelte strategiche ponderate.

Questa impostazione prudente, però, rischia di scontrarsi con la rapidità con cui muta il quadro geopolitico regionale. Se da un lato è comprensibile voler calibrare ogni investimento per evitare sprechi, dall’altro la velocità delle trasformazioni in Asia-Pacifico chiede forse risposte più rapide e decise.

Di segno opposto sembra essere stata la proposta di Peter Dutton. L’ex ministro della Difesa ha deciso di giocare una carta forte e rischiosa: un impegno a portare la spesa per la difesa al 2,5% del PIL entro cinque anni, con l’obiettivo ambizioso del 3% entro il 2035. Una manovra che significherebbe 21 miliardi di dollari in più rispetto a quanto promesso dai laburisti nei primi cinque anni, e investimenti più consistenti in droni, munizioni a lungo raggio, infrastrutture AUKUS e un ulteriore squadrone di F-35.

La proposta di Dutton ha avuto il merito di riportare al centro il concetto di deterrenza credibile e forte: un’Australia più determinata non per prepararsi alla guerra, ma per essere pronta a evitarla. L’idea, che richiama la dottrina classica della “pace attraverso la forza”, sembra rispondere all’inquietudine crescente di una parte dell’elettorato, scossa dalle notizie di manovre cinesi e russe nella regione.

Non mancano, tuttavia, elementi critici anche nella proposta della Coalizione. La tempistica dell’annuncio – a urne già aperte, con il voto anticipato che assume contorni sempre più popolari – è apparsa tardiva, dando poco tempo agli elettori per comprenderne l’impatto. Inoltre, i dettagli operativi della strategia della Coalizione restano ancora vaghi, e la vaghezza anche in questo caso torna centrale nella proposizione politico-elettorale della squadra di Dutton.

C’è poi il nodo economico: Dutton ha parlato di finanziare parte della spesa attraverso la cancellazione delle riduzioni fiscali laburiste, ma il quadro generale dei costi resta incerto in un Paese che affronta una crescita e una produttività rallentata, se non stagnante, e un’inflazione, per quanto riportata a numeri più sostenibili, comunque sempre persistente.

Al di là delle differenze, l’elemento forse più significativo è che entrambi i leader riconoscono l’urgenza di investire sulla difesa. Non è una dinamica scontata in una campagna elettorale tradizionalmente dominata da temi interni come sanità, istruzione e costo della vita.

Che si tratti di approccio graduale di Albanese o di una pur poco tempestiva accelerazione di Dutton, è evidente che l’Australia non può più permettersi un atteggiamento di indifferente neutralità che ha caratterizzato parte della politica degli ultimi vent’anni. L’illusione di vivere in una “isola fortunata”, protetta dall’isolamento geografico, è stata infranta dalla nuova competizione globale.

La vera sfida sarà non solo spendere di più, ma spendere meglio: investendo non solo in mezzi e tecnologie, ma anche nella resilienza industriale, nell’assunzione e formazione di uomini e donne delle forze armate, nella cyber-sicurezza e in una politica estera capace di rafforzare alleanze regionali oltre l’asse Washington-Londra-Canberra.

A cinque giorni dal voto, una domanda resta aperta: l’elettorato saprà cogliere la portata del cambiamento in atto? Non si tratta solo di scegliere fra spese più o meno immediate, ma di decidere quale visione del futuro si vuole per l’Australia. Una nazione capace di autodifendersi, di collaborare con alleati senza dipendenze alla cieca, di fronteggiare le crisi che inevitabilmente verranno, o una nazione che rischia di scoprire la propria vulnerabilità troppo tardi.

La storia degli ultimi anni ci insegna che le minacce non sempre si materializzano come previsto. Ma proprio per questo, la preparazione e la strategia deve essere un impegno politico, prima ancora che militare. Albanese e Dutton, pur con strumenti, tempi e idee diverse, hanno entrambi messo anche la difesa nazionale al centro della scelta elettorale. Ora spetta agli australiani decidere quale strada imboccare.