Se non ci fosse stata la ribellione del ragionier Ugo Fantozzi ai soprusi del capufficio Guidobaldo Maria Riccardelli fanatico del cinema d’arte, probabilmente la corazzata Potemkin sarebbe assai meno nota, per quanto in chiave dissacrante. Il riferimento della pellicola di Luciano Salce Il secondo tragico Fantozzi, del 1976, è a quella di Sergei M. Ejzenštejn del dicembre 1925, ispirata alla rivolta a bordo della nave da guerra zarista del 27 giugno 1905. Un anno nefasto per le sorti militari della Russia di Nicola II, con la bruciante sconfitta col Giappone che a Tsushima tra il 27 e il 28 maggio aveva clamorosamente affondato la Flotta del Baltico. Lo sterminato impero era già stato attraversato da spasmi rivoluzionari col massacro della ‘Domenica di sangue’ del 22 gennaio, quando la guardia imperiale e l’esercito avevano aperto il fuoco contro la folla che manifestava a San Pietroburgo, con migliaia tra morti e feriti. Le forze armate zariste, già demoralizzate dallo scacco in Estremo Oriente subìto dalla nascente potenza giapponese, risentivano del rigido classismo tra la casta degli ufficiali e la truppa, la rigidissima disciplina e una diffusa corruzione. Un episodio accese la miccia della rivolta a bordo della corazzata Potemkin, ammiraglia della flotta del Mar Nero, che stava conducendo una manovra al largo di Odessa assieme al cacciatorpediniere 267, nei pressi dell’isola di Tendra.
Era usanza sulle navi della Marina di Nicola II che al mattino una parte della carne stoccata a bordo venisse adoperata per la preparazione della classica zuppa russa di barbabietole, il boršč, e i quarti di bue esposti all’esterno per arieggiarli, in assenza di impianti di refrigerazione. I marinai della Potemkin, quel 27 giugno, avvertirono un odore nauseabondo e quando il boršč venne portato alla mensa rifiutarono il rancio. La carne era marcita ed era stata sciacquata con l’aceto per togliere i vermi e renderla visivamente mangiabile su ordine dell’ufficiale di guardia Ippolit Giliarovskij. Il comandante Evgenij Nikolajevič Golikov, allora, fece suonare l’adunata dell’equipaggio tra cui serpeggiava il malcontento; all’anziano medico di bordo, Smirnov, fu chiesto un ulteriore parere su quella zuppa, e questi ribadì che poteva essere consumata. Golikov allora ordinò all’equipaggio di dividersi: da un lato chi era disposto a consumare il rancio, dall’altro, a babordo, chi persisteva nel rifiuto. Il fatto che a babordo fossero stati stesi alcuni teloni, fece sospettare che l’ufficiale volesse giustiziare una trentina di marinai irriducibili nella protesta per dare l’esempio, e non sporcare la nave di sangue. Giliarovskij aveva già disposto le guardie armate quando esplose l’ammutinamento generale. I marinai sotto la guida del quartiermastro Anatolij Matjušenko si impadronirono di fucili e munizioni e uccisero gli ufficiali più odiati, sette, tra cui Golikov e Giliarovskij, e arrestarono gli altri. L’altro capo della protesta, Grigorij Vakulenčuk, era rimasto ferito mortalmente durante gli scontri a bordo. Il cacciatorpediniere 267, sotto minaccia delle artiglierie della Potemkin non poteva fare nulla, e nulla peraltro volevano fare i marinai contro i loro compagni, ai quali si unirono. Erano le 13.
Occorreva decidere subito cosa fare e, issata una bandiera rossa, si puntò verso Odessa, dove c’era stato poco prima uno sciopero generale protrattosi per più di un mese che aveva paralizzato la città, e scontri armati tra rivoluzionari e reparti dell’esercito, della polizia e dei cosacchi, con morti e feriti. Proprio a Odessa, in quello scenario in cui niente funzionava, si era rifornito di carne il cacciatorpediniere 267 per conto del comandante della corazzata. Poiché era previsto che la flotta del Mar Nero dovesse radunarsi proprio a Tendra, gli ammutinati della Potemkin, che avevano obbligato al comando il guardiamarina Alekseev, dovevano sottrarsi allo scontro aperto, ma prima dovevano imbarcare carbone, viveri e acqua. Alekseev era stato minacciato di morte se avesse tentato di far arenare la nave. La sera stessa ci fu un incontro tra i marinai e i socialdemocratici cittadini, ai quali veniva espressamente chiesto di unirsi alla rivolta, mentre intanto il comandante del distretto militare ordinava alle sue truppe di bloccare il porto. Tra il 28 e il 29 giugno non mancarono atti di violenza, saccheggi, ruberie e infine scontri a fuoco che costarono la vita almeno a un centinaio di militari d’ambo le parti. La vicenda era giunta sul tavolo di Nicola II che rimase sconcertato dalla ribellione e ordinò al comandante del distretto militare di reprimerla a tutti i costi. A Odessa vigeva la legge marziale. In accordo col comandante militare venne celebrato il funerale di Vakulencuk e quando dai cannoni fu sparata la salva di saluto due colpi caddero sulla città, fortunatamente senza gravi conseguenze. Gli ufficiali vennero fatti sbarcare, tranne due che si unirono ai ribelli, e i sottufficiali tenuti a bordo come manovalanza.
Nella serata del 30 giugno la Potemkin provò ad aprirsi una via di fuga tra le navi da guerra accorse al largo di Odessa, a costo di combattere. Le due squadre che dovevano o bloccare o affondare la Potemkin, invece di combattere si aprirono consentendo il passaggio: gli artiglieri si rifiutarono di cannoneggiarla. La corazzata Georgij Pobiedonosec si unì ai ribelli ma poi i marinai lealisti ne ripresero il controllo e rientrò nei ranghi. Abbandonata l’idea di raggiungere Sebastopoli, il 2 luglio la corazzata puntò verso Costanza, dove le autorità romene tutto volevano tranne che compromettersi con la Russia. E infatti il 9 luglio la Romania restituirà la corazzata allo zar. Per cancellare quella pagina vergognosa e imbarazzante la nave sarà ribattezzata Panteleimon.