Niente Adelaide, come promesso al premier Peter Malinauskas - che voleva una ripartenza in grande stile del suo governo dopo la certa riconferma del prossimo marzo (secondo i sondaggi, i liberali rischiano lo zero netto nel South Australia): il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, non ha mollato di un millimetro le sue ambizioni; quindi, ritiro della candidatura australiana con premio di consolazione. Bowen è diventato così il coordinatore della Conferenza di Antalya: una scelta che - ed era abbastanza ovvio - ha sollevato un immediato polverone in ambito parlamentare, sia per un doppio incarico pieno di responsabilità (a livello nazionale e internazionale) sia perché, inevitabilmente, mette in evidenza alcune ambivalenze riguardanti la politica energetica australiana. Da un lato, infatti, il ministro Bowen, fedele ai propri credo, vestendo i panni del grande negoziatore globale sarà chiamato a guidare la diplomazia planetaria  verso una fase più intransigente e responsabile della transizione energetica. Dall’altro, però, la sua missione è segnata da una contraddizione profonda perché, proprio a ridosso del ‘compromesso’ di Belém (alla COP30), il primo ministro Anthony Albanese, dal G20 di Johannesburg, ha difeso apertamente gas e carbone, ritenendoli elementi imprescindibili nel quadro economico nazionale e internazionale. 

La Conferenza Onu sul clima ha messo in luce la difficoltà della comunità internazionale nel compiere un salto di qualità nelle politiche energetiche. Il mancato riferimento esplicito ai combustibili fossili nel documento finale e la protesta di alcuni Paesi, che hanno lasciato la plenaria per manifestare il proprio dissenso, hanno rivelato quanto gli equilibri restino fragili. È in questo contesto che Bowen ha rivendicato il ruolo dell’Australia nel sostenere, già a Dubai lo scorso anno, l’introduzione del linguaggio sulla “transizione dai combustibili fossili”, ponendosi come punto di raccordo tra la pressione morale dei piccoli Stati del Pacifico e la cautela politica delle grandi economie emergenti.

Tuttavia, questo tentativo di leadership si scontra inevitabilmente con le posizioni espresse, domenica scorsa da Albanese, secondo cui il gas rimane un componente essenziale del percorso verso lo zero netto del 2050 e le esportazioni di carbone, che sostengono a suon di miliardi l’economia e il budget australiani, non saranno limitate. A Bowen saranno fischiate le orecchie, ma la realtà dei fatti ha il sopravvento su qualsiasi ‘missione’ e il capo di governo si sta mostrando molto più pragmatico del suo ministro, su un tema che continua a tenere banco e che di vittime, alla Lodge e dintorni, negli ultimi vent’anni, ne ha fatte parecchie. Dichiarazioni contrastanti a Belém e Johannesburg, segno di una tensione strutturale tra le ambizioni internazionali dell’Australia e i vincoli interni derivanti dal peso dell’industria mineraria e dall’importanza strategica dei combustibili fossili per l’economia nazionale.

È difficile immaginare una sintesi semplice tra queste due istanze. L’Australia, tra i maggiori esportatori di carbone e gas al mondo, non può disconoscere dall’oggi al domani il ruolo che tali settori ricoprono per la propria prosperità economica e per il proprio equilibrio politico interno. E tuttavia, nel contesto dell’Indo-Pacifico, si confronta quotidianamente con Paesi per i quali la crisi climatica non è una minaccia astratta, ma un destino prossimo: territori che rischiano di scomparire, economie rese vulnerabili dagli eventi estremi, identità culturali e geografiche a rischio. Per questi Stati, ogni tentennamento su una riduzione dei combustibili fossili che, per la loro stessa sopravvivenza non può essere tanto graduale, sembra non solo incomprensibile, ma tremendamente ingiusto e pericoloso.

Per Bowen, la sfida della presidenza della COP31 non sarà soltanto tecnica (con relazioni, viaggi e consultazioni intorno al mondo) ma eminentemente politica. La sua credibilità personale, e con essa la reputazione internazionale dell’Australia, dipenderà dalla capacità di dimostrare che le ambizioni dichiarate non sono meri esercizi retorici, ma segnali di una trasformazione reale del Paese in campo energetico. Ciò non significa abbandonare di colpo le esportazioni fossili, ma non deviare minimamente da una direzione che, ora più che mai, deve diventare una specie di linea-guida per una strategia mondiale. La leadership climatica non tollera ambiguità: richiede coerenza, o almeno la percezione di un percorso credibile, sostenuto da decisioni in linea con gli impegni internazionali. Severamente vietate quindi le narrative parallele: una per uso interno, rassicurante per gli elettori e la lobby mineraria; e una per uso esterno, confezionata per i vertici internazionali.

 La COP30 ha lasciato un’eredità complessa. Non sono state raggiunte svolte decisive, e il tempo a disposizione per mantenere vivo l’obiettivo dei 1,5°C come tetto massimo del surriscaldamento planetario, si assottiglia rapidamente. Il fatto che la presidenza brasiliana abbia promesso un incontro intermedio (in aprile in Colombia), per dare spazio a chi chiede una linea più dura sui combustibili fossili, è un segnale della crescente impazienza di molti Paesi. E questo impegno ricadrà direttamente sulle spalle di Bowen che in Colombia, però, non ci andrà, ha assicurato martedì in Aula Albanese che, forse, comincia già ad avere qualche dubbio sulla bontà del ‘compromesso turco’. 

Spetterà al ministro dei Cambiamenti climatici dimostrare che tutto è possibile, che troverà il modo di non farsi distrarre da altri impegni, rimanendo concentrato sulle aspettative degli australiani, in relazione a costi da far rientrare e obiettivi da raggiungere e, allo stesso tempo, dimostrare che le parole pronunciate nei forum internazionali non sono un esercizio di immagine, ma l’anticipazione di un cambiamento reale in corso, che dovrebbe essere replicato su scala internazionale. 

La doppia postura australiana è però un po’ lo specchio delle difficoltà che molte economie avanzate devono affrontare quando si trovano a metà tra le responsabilità verso il pianeta e i vincoli delle proprie strutture economiche. Ma la maturità politica, soprattutto nelle grandi sfide globali, si misura nella capacità di sciogliere queste ambiguità. Doppi equilibrismi, quindi, per Bowen con l’opposizione che ringrazia perché almeno può concludere l’anno parlamentare mostrando qualche segno di vita.

L’abbandono sofferto e divisivo (i tormenti interni continuano, con chiare prese di distanze del partito liberale a livello statale) dell’obiettivo zero netto, non ha avuto sicuramente l’effetto sperato per ciò che riguarda un elettorato rimasto del tutto indifferente (nei sondaggi) alla decisione che Sussan Ley, con un pizzico di stile e una buona dose di coraggio, sta provando a vendere, cercando di crederci veramente. Per ora la svolta è servita solo a salvare la partnership con i nazionali e dare il via ai posizionamenti per un quasi annunciato cambio al vertice del prossimo autunno.

E’ incredibile, infatti, quanto apertamente i liberali stanno progettando il dopo Ley, augurandosi che il passaggio delle consegne avvenga nel modo più naturale possibile se anche i moderati, ad un certo punto, accetteranno la presunta necessità di un nuovo corso a differenziazioni (con i laburisti) più nette e chiare. Andrew Hastie e Angus Taylor hanno praticamente detto: i tempi non sono ancora maturi, ma noi ci siamo.