Alcuni forse non sanno che ad High Street a Prahran (me compresa, nonostante abiti lì dal 2011),  dove si trova ora il campus del Melbourne Polytechnic, dal 1968 fino al 1991 circa c’era il prestigioso Prahran College of Technology, nel quale si sono diplomati molti famosi artisti locali. Recentemente, alcune opere fotografiche degli ex studenti del corso fotografico del College sono state esposte alla mostra ‘The Prahran Legacy: Beyond the Basement’; tra queste, c’erano anche quelle dell’italo-australiano, Luzio Grossi. 

Laziale di nascita, ma con un marcato accento da vero e proprio australiano, Grossi è un riconosciuto professionista della fotografia in Australia, dove vanta collaborazioni con The Age, The Australian e The Australian Financial Review

“Sono migrato qui con la mia famiglia nel 1974. Vengo da un meraviglioso paesino di campagna in provincia di Latina e, quando sono arrivato nel bel mezzo dell’inverno a Clayton, è stato scioccante. Non avevo mai visto così tanto cemento prima di allora!”, ricorda Grossi, diventato cittadino australiano solo nel 2001. 

Lo shock culturale è notevole per Grossi, che ricorda quando, aspettandosi la stessa calorosa accoglienza tipica dell’Italia, si ritrova invece immerso in un clima più gelido e individualistico. Il ricongiungimento con il resto della famiglia a Melbourne, dove gli zii e i cugini già vivevano in pianta stabile, non è stato subito semplice. “Riuscivo solo a comunicare con i miei zii, poiché i miei cugini non parlavano italiano. E quando una sera mio zio Tito mi ha detto che avrei iniziato la scuola il giorno dopo, mi sono detto: ‘Domani sarà una giornata difficile’. Invece, nel giro di tre settimane, quasi non riuscivo a crederci: me la cavavo abbastanza bene con l’inglese!”.

La sua insaziabile curiosità, grande apertura mentale e occhio fine ben presto lo portano ad avvicinarsi al mondo della fotografia. “A quel tempo potevi studiare fotografia all’RMIT e poi c’era il Prahran College, considerato come la scuola degli artisti bohémien. A me piaceva, ma era possibile accedervi solo su invito, e le classi erano molto piccole”.

Il tenace Grossi però non si dà per vinto e comincia a “ronzare” nella classe del noto fotografo John Cato. Nonostante la sua giovane età – solo 17 anni, al di sotto degli standard richiesti per essere ammessi al corso –, riesce a catturare l’attenzione del docente ed entra a far parte del Prahran College. 

Il carismatico Grossi non tarda molto ad accorgersi che lo stile di fotografia a cui aspirava usciva dai canoni di quel periodo. “Ricordo che per il mio primo servizio fotografico chiesi a una studentessa del corso di ceramica, che si teneva al piano superiore al nostro, di posare per me. Assemblai un crocifisso e la fotografai nuda. Sul crocifisso, applicai i temi a cui il mio docente Cato faceva riferimento quando pensava alla fotografia perfetta: religione, sesso e nostalgia”. Cato, però, non apprezza la scelta azzardata del giovane Grossi e lo vuole fuori dal corso.

“Alla fine, mi sono reso conto che la maniera in cui si fotografavano le persone era un po’ noiosa. Allora, mi sono messo a cercare dei comici, perché volevo dei soggetti interessanti per i miei pezzi”. Inizia quindi a collaborare con i primi comici di Melbourne, fino ad arrivare a ospitare la sua prima mostra fotografica nel 1987. 

Per promuoverla, si affida ai ricordi d’infanzia, in molti dei quali c’era sua madre che gli diceva di tenere la bocca chiusa: “Parla soltanto quando piscia la gallina, mi diceva”. Grossi traduce alla lettera quella frase e la usa come slogan per far conoscere la sua mostra a tutta la città. ‘Speak Only When the Chicken Pisses’, un titolo tanto irriverente quanto ribelle, riceve però varie critiche dalla stampa e anche da una emittente radiofonica. Nonostante tutto, Grossi riesce a vendere tutti i pezzi esposti alle gallerie di Melbourne, vincendo una sovvenzione, per poi diventare il fotografo ufficiale dell’Edinburgh Festival l’anno successivo. Da quel momento, la sua carriera da fotografo è in continua ascesa e lo vede immortalare immagini per note testate giornalistiche locali, come per riviste internazionali, quali Vogue, Rolling Stones, Harper’s Bazaar. Tanti i viaggi, dalla Francia all’Italia, fino all’India dove supervisiona l’apertura di una scuola di fotografia a Nuova Delhi. “Ci sono rimasto per sei mesi e mi sono innamorato della cultura locale; penso sia molto simile a quella italiana. Le famiglie sono grandi e unite, abitano nella stessa casa e accolgono tutti a braccia aperte”. 

C’è poi un periodo trascorso negli Stati Uniti, dove Grossi fotografa personaggi del calibro di James Brown, Latoya Jackson e lo stesso Donald Trump. “Ero con la troupe nel suo ufficio, alle Trump Towers e, quando è entrato, la tensione tra lo staff è diventata subito palpabile. Di solito in Australia la pronuncia del mio nome viene massacrata, ma per qualche motivo i newyorkesi lo pronunciano correttamente”. Anche lo stesso Trump, presentandosi al fotografo, ha pronunciato bene il suo nome.

Quando chiedo a Luzio Grossi se le radici italiane abbiano avuto un impatto sulla sua carriera da fotografo, riflette sul fatto che, se avesse cambiato il suo nome come altri fotografi italiani in Australia hanno fatto prima di lui, probabilmente avrebbe lavorato molto di più. “Il mio nome è parecchio inusuale, anche per gli italiani”.

Il legame con l’Italia, però, rimane ancora saldo. Grossi ricorda con piacere quando ha collaborato con la Repubblica e il Corriere della Sera, l’anno trascorso nel Belpaese. E anche quando, giovane e alle prime armi, prendeva riviste italiane, quali Vogue Italia, come un punto di riferimento. “Era la Bibbia di molti fotografi, soprattutto quelli di moda. La fotografia italiana era almeno sei mesi avanti a noi in Australia”.

È possibile ammirare le composizioni fotografiche di Luzio Grossi al Museum of Australian Photography e alla prossima Ballarat International Foto Biennale.