Ogni immigrato ha una sua storia. L’inizio, però, è sempre accomunato dal singolo, o la famiglia, che lasciano la terra natìa, trascinandosi appresso una valigia carica di tanti vestiti, sogni, speranze e prospettive. In un angolino di quella valigia, schiacciate sotto il peso di tutti quei frammenti di vita “vecchia” raccolti frettolosamente, ci sono anche le rinunce, i sacrifici, e la nostalgia. Arrivati a destinazione, la valigia è lanciata in un angolo; del suo contenuto, viene preso solo quello che serve, con la promessa di disfarla poi nella sua interezza. E quando quel giorno arriva, senza neanche un preavviso, la valigia è diventata pesante, il suo interno grigio; osservandola, tutti quei sogni, speranze e prospettive sembrano essersi dissolti.
Il noto autore dell’acclamato The Fireflies of Autumn, Moreno Giovannoni, nato a San Ginese, in provincia di Lucca, e migrato con la famiglia in Australia alla giovane età di 2 anni, si è sempre domandato se, alla fine, gli immigrati siano davvero felici, se la loro storia sia veramente una storia di successo. Hanno trovato quello che cercavano? O hanno perso la loro vera essenza strada facendo? E quale prezzo hanno dovuto pagare per raggiungere la tanto agognata “vita migliore”?
“‘Ci hanno accolto bene, gli australiani, ci hanno voluto bene’–, riflette Giovannoni. – ‘Siamo diventati cittadini, abbiamo fatto i soldi, viviamo una vita tranquilla’. Ma non si pensa mai a chi, invece, è stato male. Siamo tutti venuti qui “for a better life”. Ma, in quanti hanno davvero trovato questo?”.
Un pensiero che da sempre attanaglia Giovannoni, che ha deciso di condividere con i suoi lettori il vero volto della vita dell’immigrato. Nel suo secondo libro, The Immigrants. Fabula Mirabilis, or, A Wonderful Story, ufficialmente presentato al Co.As.It lo scorso 1 luglio, Giovannoni narra di una famiglia di immigrati italiani degli anni ’70 che vivevano nelle zone rurali del Victoria.
Parte di quella che Giovannoni definisce “una trilogia”, la storia prende spunto dalla vita dello stesso autore, e segue quella precedentemente narrata tra le stradine di San Ginese, dove i suoi antenati, e genitori, sono nati e cresciuti. Inspirandosi a fatti, luoghi e persone reali, sceglie però di usare nomi di pura fantasia; ad eccezione del padre e della madre del protagonista, Ugo e Morena, i reali nomi dei genitori di Giovannoni, e del protagonista stesso, Morè.
“Morè. Only an Italian can say that properly, and there’s no one left in the world who calls him that. They’re all dead”, scrive Giovannoni, riportando alla mente quel doloroso momento di distacco eterno dai propri genitori, e la fine della pronuncia, tanto unica, quanto famigliare, del nome Morè, che scompare così, improvvisamente, dal libro.
“Sono cresciuto in una famiglia dove si parlava italiano di quegli anni, e ho voluto conservare, e tramandare, le cose che dicevano queste persone, non solo i due personaggi basati sui miei genitori”.
Tante le parole usate lasciate in dialetto lucchese, così come i ritornelli e le fiabe che la madre Morena gli raccontava da bambino. Una è quella di Pochettino, che Giovannoni vagamente richiama e che, tra una punta di nostalgia e una di divertimento, ricorda essere stata abbastanza inusuale da ascoltare in giovane età. “Era roba quasi da fratelli Grimm!”.
I nomi dei luoghi raccontati nel libro, sono stati deliberatamente scritti come venivano pronunciati dai genitori: Monbafalo, Mitrefò, Bafaloriva. “I miei avevano un certo modo di parlare, di pronunciare i nomi. Solo che la gente, e questa è una cosa che mi dispiace molto, prendeva, e prende, in giro la pronuncia degli italiani. A me è sempre piaciuta però”. Uno straordinario rispetto e attaccamento alle radici italiane che Giovannoni non nasconde in nessun capitolo del libro, e di cui ne ha fatto una missione personale, diventando interprete, e frequentemente prestando la sua assistenza linguistica negli ospedali e case di riposo. “Lo faccio per passione, per stare a contatto non solo con la lingua, ma anche con queste persone dell’età dei miei genitori, che ormai non ci sono più”.
Tra le pagine del libro, anche sette capitoli definiti “grotteschi”, tragici racconti che portano alla luce il lato nudo e crudo della vita dell’immigrato. Racconti scritti con pugno pesante, per dare modo al lettore di capire la vasta profondità, e tutte quelle piccole sfaccettature che irrimediabilmente diventano marchi indelebili sulla pelle di chi, ha deciso di lasciare una terra per un’altra, vivendo costantemente sospesi, in un limbo. “Abbiamo fatto parecchio avanti e indietro tra San Ginese e Whitfield, con i miei genitori e mio fratello. Alla fine, i miei non riuscivano più ad adattarsi alla vita da paesino italiano. Ma hanno sempre parlato di questo costante ‘limino’, che li limava piano piano, dall’interno. Mia madre, alla fine, si è rassegnata”. Il padre, invece, all’età di 89 anni, ancora si domandava se avessero fatto bene a migrare in Australia. “Ma come si fa a dire diversamente a un uomo di quell’età? Io, finchè ho conosciuto Whitfield, ero felice, vivevo una vita tranquilla e serena. Quando ho cominciato a conoscere la realtà di San Ginese, e di Lucca, è cambiato tutto. Una volta tornato a Whitfiled, quella che prima era per me normale quotidianità, come andare a pescare, camminare con il mio cane, non mi attraeva più. Ero spaesato”.
Queste e altre riflessioni sono già lo spunto per il terzo, e forse ultimo, libro- già in cantiere- di Giovannoni. Dove il percorso migratorio, il suo prima, durante, e dopo, si andranno ancora una volta ad intrecciare con le vicende personali della sua stessa penna, raccontandone tutte le sue verità, tanto scomode, quanto reali.