Il senatore verde David Shoebridge si è rifiutato di condannare, partecipando di persona alla protesta, la violenza messa in mostra dei manifestanti nella tre giorni di Melbourne, in occasione della controversa ‘fiera delle armi’ (Land Forces expo). Tre giorni con scene di assurda guerriglia urbana, che le forze dell’ordine sono riuscite a contenere a stento usando pallottole di gomma, granate stordenti, polizia a cavallo, lacrimogeni, spray al peperoncino. Tre giorni di scontri che hanno paralizzato parte della capitale del Victoria, che hanno causato decine di feriti, arresti, milioni di dollari di danni, incredibili inconvenienti per decine di migliaia di cittadini. Una protesta violenta contro la violenza delle armi e delle guerre, che è stata soprattutto l’occasione per sventolare bandiere palestinesi e condannare senza attenuanti Israele e il governo per la sua posizione, con un disperato aggancio, qua e là, addirittura con la questione aborigena.
Shoebridge, come i colleghi statali Ellen Sandell (leader del partito nel Victoria) e Gabrielle de Vetri (che ha rinunciato agli impegni in Parlamento per partecipare alle proteste), invece di condannare i violenti ha condannato la ‘violenta’ reazione della polizia. L’ennesima dimostrazione, per molti, di un partito che ormai, impegnato com’è a combattere su tutti altri fronti, ha perso parecchio smalto ambientalista abbracciando sempre di più la causa della protesta contro lo status quo, rappresentato – secondo il suo leader, Adam Bandt - dalla vecchia politica dei laburisti e della Coalizione.
E con la prospettiva sempre più credibile di un’elezione, quella del prossimo anno, tirata al punto da poter arrivare ad un verdetto di parità, molto simile a quello del 2010, il rischio che siano proprio i verdi, con il loro 12-13 per cento di consensi ormai consolidati, a fare da spalla ad un’amministrazione di minoranza. Consensi che rischiano di salire ancora di qualche punto percentuale ora che sono entrate in ballo anche le varianti: palestinese - a danno dei laburisti in più di qualche seggio, specie nell’area metropolitana di Sydney e Melbourne - e dell’energia atomica, a scapito dei liberali determinati a mettere in discussione il ‘no’ al nucleare protetto dall’Australian Radiation Protection and Nuclear Safety Act (del 1998) e l’Enviroment Protection and Biodiversity Conservation Act (del 1999).
Verdi che scalpitano e che hanno già messo sul tavolo proposte all’insegna del ‘prendere o lasciare’ per appoggiare un possibile futuro governo di minoranza laburista. Al centro del ‘pacchetto-Robyn Hood’ di Bandt (che invece di ‘riprendere’ il suo senatore in piazza a Melbourne, ha ‘benedetto’ la protesta contro quello che definito il ‘festival dei venditori di armi’ accusando l’Australia, con toni ormai solitamente piuttosto violenti, di essere diventata “un paese che trae profitto dalla morte e dalla distruzione, specialmente durante un genocidio”): riforme fiscali imperniate su un’imposta punitiva sui maxi-profitti delle grandi compagnie, in modo particolare di banche e miniere; una decisa azione contro l’uso di gas e carbone e tutta una serie di rivendicazioni, all’insegna di una maggiore equità sociale. Laburisti avvisati di quello che hanno davanti a sé, con la Coalizione fuori da qualsiasi trattativa.
Sarà quindi molto più facile per Peter Dutton confermare quello che ha già anticipato di fare e di mettere i verdi all’ultimo posto per ciò che riguarda i voti preferenziali, ora che i liberali provano qualche senso di colpa in più per essere stati proprio loro ad aver aiutato Bandt, nel 2010, ad entrare in Parlamento, ossessionati com’erano di bloccare la strada di Melbourne ai laburisti. Giochetto riuscito e vizietto ripetuto in altri seggi nelle tornate elettorali successive, pur di togliere terreno agli avversari di sempre. Un opportunismo di cui solo ora cominciano a capire le conseguenze che riguardano l’intero Paese.
Responsabilità maggiori e, soprattutto, maggiore coraggio richiesto ai laburisti per fare la stessa cosa sul fronte delle preferenze. Sono quelli che rischiano di più in questa ‘guerra a sinistra’, dato che i verdi sono proprio quelli che sempre più, in alcuni seggi, grazie ai loro voti permettono ai laburisti di sopravvivere, mentre in altri collegi li costringono ad una spasmodica difesa.
Alla fine, come sempre, la realtà della convenienza avrà la meglio, come nel caso dell’NDIS e delle riforme sull’assistenza agli anziani. Dutton, pur riservandosi il diritto di chiedere ulteriori chiarimenti e possibili modifiche, ha detto sì ad entrambe le proposte laburiste perché, specie nel secondo caso, ha ritenuto che sia meglio lasciare al governo la responsabilità di trovare il modo di affrontare la realtà di spese da far rientrare, varando un programma a lunga scadenza che, come tutte le riforme, impone per alcune fasce della popolazione qualche sacrificio in più (servizio a pag.13).
Più facile il sì al piano NDIS che prevede di affrontare da subito sprechi e abusi: effetto immediato del provvedimento e laburisti in prima linea per l’impatto del giro di vite, tra l’altro dovuto per frenare una spesa che rischiava di sfuggire di mano, senza più stringenti controlli.
I cambiamenti da apportare al delicato ma cruciale, per il presente e futuro, campo dell’assistenza agli anziani, in termini politici è molto più complicato per l’opposizione. L’accordo raggiunto tra i due maggiori schieramenti non garantisce ancora al cento per cento il passaggio della riforma nel Senato: prevede comunque uno status quo per ciò che concerne coloro che già sono ‘entrati nel sistema di assistenza’, mentre riguardano da vicino, con le conseguenze politiche del caso, coloro che potrebbero entrarci a breve. Una riforma dovuta per una questione di costi e sostenibilità, ma una riforma che dovrebbe attivarsi proprio in un periodo di grandi incertezze economiche che stanno mettendo a dura prova la qualità di vita di molte famiglie.
Riforme che significano migliori servizi, ma anche un maggior contributo da parte dei cittadini direttamente coinvolti nei servizi di assistenza. Per la Coalizione il rischio politico extra di una ‘penalizzazione’, in termini pratici dal punto di vista strettamente monetario, di ‘chi se lo può permettere’ che, tradizionalmente, rientra nella fascia dell’elettorato liberale.
I governi di entrambi i colori politici hanno da sempre ritenuto l’assistenza agli anziani una specie di costoso incubo. Un settore che ha sempre più bisogno di attenzione e che non offre grandi ritorni elettorali. Un indubbio dovere di intervenire che ha portato i laburisti a cercare di minimizzare i rischi coinvolgendo nel ‘dovere’ la Coalizione che, dal canto suo, ha capito che non poteva sottrarsi e ha accettato di rinunciare a qualsiasi vantaggio politico a breve termine pur di garantirsi maggiori spazi d’azione, dal punto di vista finanziario, quando ritornerà nella stanza dei bottoni a Canberra. Alla fine un accordo di massima è stato raggiunto, con 930 milioni di dollari da spendere nei prossimi quattro anni e 12,6 miliardi da risparmiare nei prossimi 11.
Risparmi che andranno a sommarsi a quelli concordati dicendo sì alle riforme dell’NDIS, con spese annuali che, entro il 2026, dovrebbero scendere dall’attuale 11 all’8%, semplicemente riducendo il numero degli assistiti e, in molti casi, l’eccessiva ‘generosità’ non monitorata del servizio di assistenza.
Una ventata di realismo, una positiva intesa (con tutti gli espedienti politici del caso) bipartisan su due grandi temi che hanno bisogno di urgente attenzione: sul terzo tema di interesse nazionale (i verdi sempre più ago della bilancia della politica federale), invece, non c’è speranza. La tentazione di fare fronte comune magari c’è, ma i numeri e le necessità, in molti casi, avranno la meglio.