Non bastano le urne a garantire stabilità. E neppure una vittoria così ampia da lasciare stordita l’opposizione. Lo dimostra il clima che si è respirato a Canberra nei giorni successivi al trionfo del partito laburista. Il secondo mandato di Anthony Albanese inizia con una mano ferma sul piano internazionale, ma con i nervi scoperti al cuore del suo stesso partito. È un inizio che rivela molto di più sulle tensioni interne alla politica australiana di quanto non dicano le cifre elettorali.
Il rinnovo del governo, celebrato come un’opportunità per premiare il merito e dare spazio a una nuova generazione di parlamentari - molte delle quali donne, in un parlamento che per la prima volta vede la maggioranza del gruppo laburista composta da figure femminili - si è trasformato in un Caucus che ha assunto la forma di una spietata strategia di calcolo di fazioni contrapposte.
Non è tanto il merito dei ministri uscenti ad aver pesato, ma il bilancino delle correnti, i giochi di forza e il ritorno dell’antica logica delle quote, rivestita, però, di una brutalità nuova.
La rimozione dall’esecutivo di Mark Dreyfus, esperto politico di solida reputazione e figura di equilibrio, e di Ed Husic, unico musulmano in Consiglio dei ministri, ha suscitato una reazione pubblica senza precedenti anche da parte di un ex primo ministro, Paul Keating, che ha denunciato la mancanza di coraggio di Albanese di fronte alle manovre del suo vice, Richard Marles. Non si tratta di un dissenso isolato: nella base e tra gli stessi parlamentari serpeggia il disagio per l’uso spregiudicato del potere interno al partito.
La corrente della destra laburista del Victoria, guidata proprio da Marles, ha saputo imporsi con decisione. Ma questa forza muscolare non si traduce automaticamente in autorevolezza. Piuttosto, lascia il sospetto che le priorità della leadership siano state dettate più dall’aritmetica interna, che dalla visione politica. I nuovi entrati - Sam Rae e Daniel Mulino - sono figli di questo sistema. E, sebbene la rivendicazione di un riequilibrio tra i territori possa avere una base numerica, l’assenza di trasparenza e dialogo ha reso il processo indigesto, dentro e fuori le stanze del potere.
Il silenzio del primo ministro può diventare però assordante. Albanese gode oggi di un’autorità senza precedenti nel campo progressista. Ma scegliere di non esercitarla, lasciando che siano le correnti a dettare la linea, rischia di intaccare l’immagine di guida inclusiva e determinata che aveva faticosamente costruito. Governare significa anche dire no ai propri alleati quando la posta in gioco è la coesione di un esecutivo e la fiducia dell’elettorato.
Eppure, proprio in questa scelta c’è forse un calcolo più profondo. Non intervenire può essere letto anche come una forma di delega consapevole, di controllo indiretto delle dinamiche interne. Albanese sa che le correnti fanno parte del DNA del partito laburista e che, contrastarle apertamente, significa rischiare fratture insanabili. Ma il confine tra equilibrio e passività è sottile. E la sensazione diffusa, oggi, è che quel confine sia stato superato.
Dall’altra parte del Parlamento, la situazione è altrettanto fluida. La sconfitta della Coalizione è netta, e per Peter Dutton non c’è più margine di ambiguità: il suo ciclo si è concluso. Ma la crisi identitaria del centrodestra è ben più profonda della semplice sostituzione di un leader.
I liberali non riescono a parlare ai giovani, alle donne, ai lavoratori urbani, a una classe media inquieta ma non reazionaria. L’elettorato ha bocciato sia l’austerità rancorosa della “Piccola Australia”, sia l’inconcludenza del populismo verde.
Il voto del 3 maggio è stato, nel suo complesso, una riaffermazione del pragmatismo australiano. Ha premiato la solidità, la competenza, la gestione graduale di un periodo incerto. Ma ha anche lanciato un avvertimento: la pazienza dell’elettorato non è infinita.
Se Albanese vuole davvero segnare un’epoca, dovrà governare con più coraggio di quanto non ne abbia mostrato nel disegnare la sua nuova squadra.
Il vero banco di prova sarà economico. Il ministro del Tesoro Jim Chalmers ha indicato nella produttività la priorità del secondo mandato. Ma aumentare la produttività richiede riforme vere, visione strategica, capacità di coinvolgere e spiegare, anche rischiando. Serve una politica industriale credibile, un’agenda per il lavoro e l’istruzione, un piano serio per affrontare la crisi dell’edilizia e della demografia.
L’Australia produce oggi meno beni e servizi di quanto avrebbe dovuto, secondo le proiezioni pre-Covid. Il tasso di crescita è debole, gli investimenti privati restano contenuti e la pressione sui conti pubblici è in aumento. Servono più case, più lavoratori qualificati, più nascita di imprese innovative. Ma senza una revisione del sistema migratorio e delle politiche per la famiglia, ogni obiettivo rischia di restare sulla carta.
Il governo ha avviato alcuni passi nella giusta direzione: la riforma delle licenze professionali, gli incentivi ai governi statali per abbattere le barriere regolatorie, la promozione della transizione energetica. Ma manca ancora il coraggio di affrontare la questione fiscale, quella demografica, quella della competitività industriale.
Un altro fronte è quello del lavoro. La partecipazione femminile è cresciuta, e il secondo mandato potrebbe essere l’occasione per consolidare una riforma strutturale nel campo dell’infanzia e dell’assistenza. Il sistema di educazione prescolare universale e i nuovi sussidi per la cura dei bambini sono passi importanti, ma vanno accompagnati da una rete territoriale di strutture adeguate e da politiche che riconoscano il valore economico del lavoro di cura.
Il nodo delle disuguaglianze è destinato a farsi più acuto. Il secondo governo Albanese dovrà dimostrare che è possibile coniugare crescita e equità, mercato e inclusione. Non sarà sufficiente agire per fasi. Servirà un disegno coerente e capace di resistere alle pressioni contrapposte delle fazioni interne e dei vincoli esterni.
La forza del mandato ricevuto è anche una sfida. Con un’opposizione disorientata e una maggioranza solida, la tentazione dell’autosufficienza e del compiacimento può diventare un pericolo. Il dialogo con la società civile, con il mondo economico e con quello sindacale deve restare costante, non come rituale, ma come metodo di governo. Un premier prudente non può permettersi l’inerzia.
I prossimi dodici mesi saranno cruciali. L’Australia ha scelto continuità, ma attende cambiamento. Ha respinto l’estrema sinistra, ha punito un centrodestra confuso, ha affidato ai laburisti una grande responsabilità.
Tocca ad Albanese, con il suo stile prudente e il suo capitale politico, dimostrare che governare non significa solo mediare, ma anche decidere.
E se il partito laburista vuole davvero scrivere una pagina nuova, dovrà iniziare da sé stesso. Con meno cinismo e più coraggio.