In quei momenti, quando il cielo è ancora scuro e la cucina immersa nel freddo e nel silenzio, mi sembra impossibile avere fiducia nel futuro e penso con amarezza ai miei simili, che giocano a insanguinare e distruggere la madre Terra. Mi sento allora impotente, incapace di agire, annichilito; mi sembra che la nostra specie abbia scelto di ignorare la bellezza della vita e che nulla si possa fare per fermare questa deriva suicida.
Poi, col cielo già chiaro, esco di casa, mi incammino, arrivo al lavoro e passo la giornata fra gente normale. Incontro persone amichevoli, gentili, che ti esprimono gratitudine se le aiuti con il tuo lavoro e ti salutano sorridenti. Riscopro così, ogni giorno, che il mondo va avanti e, per lo più, non è fatto di folli decisi ad ammazzare il prossimo per potere, ideologia o follia; constato anzi che la maggioranza vorrebbe solo vivere la propria vita, se possibile senza far del male a nessuno. Mi sembra anche che tutti siano affamati di vicinanza umana, in cerca di relazioni, aperti al sorriso e alla stretta di mano, qualche volta anche all’abbraccio e al bacio di amicizia e di saluto. Capita così che, all’ora di pranzo, io abbia già riconquistato un po’ di fiducia nel futuro e mi sia riconciliato con i miei simili. Tutto questo si ripete ogni giorno e lo vivo un po’ come un enigma che non so risolvere: se siamo normalmente così, perché poi, in certe condizioni, in altri contesti, diventiamo disposti a trucidare, violare e distruggere?
Una giornalista RAI, amica di gioventù, mi ha rivelato che, da qualche tempo, evita che i figli ascoltino o leggano la cronaca perché, secondo gli studiosi, l’esposizione quotidiana, eccessiva, alle notizie su conflitti, disastri ambientali e persecuzioni, verso i quali si avverte sempre un forte senso di impotenza, provoca ansia e frustrazione e può indurre nei giovani uno stato di prostrazione, rendendoli fragili e incapaci di agire: le brutte notizie, i fatti su cui non si può far nulla, sarebbero la porta aperta non solo alla depressione ma anche all’immobilità, alla rassegnazione, al chiudersi in sé stessi, perché tanto il mondo va a rotoli e non c’è nulla che si possa fare per impedirlo.
L’amica, che si dedica da sempre, nella sua attività di giornalista investigativa, alle tematiche sociali e ambientali, vuole invece che i figli si diano da fare e proprio dal suo lavoro prende esempio per stimolarli. Lei, ogni mattina, dai microfoni della radio, racconta i problemi, denuncia il malaffare e conferma, dati scientifici alla mano, la precarietà della nostra condizione, la spada di Damocle del cambiamento climatico che ci minaccia e l’inerzia della politica nel trovare soluzioni efficaci. Ma va anche a caccia di buone notizie, scova le tante esperienze positive, intervista gente che, lontano dagli intrallazzi della politica e dai salotti del potere, è impegnata a fare qualcosa di concreto per cambiare il circostante, dando il suo contributo per accendere un po’ di speranza e migliorare la vita, che sia quella del proprio quartiere o di qualche lontano paese. Così facendo racconta, a chi si mette in ascolto, e anche ai suoi figli, che non siamo impotenti, che possiamo e dobbiamo darci da fare.
Ho riflettuto a lungo sulla conversazione avuta con questa brava giornalista che, quando era ventenne e ancora studiava, alla sera, invece di andare nei locali a bere o in discoteca a ballare, distribuiva pasti caldi ai senzatetto che dormivano nei sottopassi della ferrovia, dedita anche allora a gesti concreti di solidarietà.
Lei mi racconta che in Italia ci sono tante piccole cose belle che avvengono ogni giorno: comunità che si organizzano per vivere rispettando l’ambiente; associazioni che fanno rivivere le rotte che, anticamente, mettevano in comunicazione tutte le sponde del Mediterraneo unendo popoli oggi divisi; ingegneri che sviluppano tecnologie compatibili con la difesa del clima; gruppi di cittadini che si mettono assieme per comprare dai contadini della loro zona verdure di stagione, rompendo il predominio delle grandi catene di distribuzione di cibo avvelenato dalla chimica e prodotto con lo sfruttamento dei lavoratori; cittadini disposti a finire davanti al giudice pur di aiutare i migranti che viaggiano sulle rotte dei contrabbandieri. Tutta gente che non è collusa col potere e fa piccoli gesti concreti, quotidiani.
Sono segnali di speranza che mi sfuggono, quando al mattino leggo le notizie e lo sconforto mi assale. Sono donne e uomini che forse non passano più nemmeno per le urne, perché non ci credono più, ma cercano altrove il cambiamento, disegnando concretamente un futuro completamente altro, aprendo nuove vie, lontano dal clamore, sentieri sui quali anche altri potrebbero incamminarsi. Sono persone che non possono più cedere in dignità e vogliono vivere una vita coerente con un’etica della solidarietà che guida i loro passi.
Non credo che si debba smettere di informarsi, nemmeno mi sembra davvero una buona idea tenere nascoste ai figli le brutte notizie. Ma tutto questo non può essere fine a sé stesso: se si legge dei mali del mondo poi è anche necessario imbarcarsi e navigare sulle rotte che cercano di disegnare un futuro diverso. Non può trattarsi di un viaggio solitario: il cammino ha senso solo se si viaggia assieme, in comunità.
Forse un problema da risolvere è quello di fare rete: sparsi per l’Italia e per il mondo ci sono tutti questi gruppi che fanno cose belle, ma ognuno sembra andare per conto suo.
È urgente comunicare, scambiarsi informazioni ed esperienze, sorreggersi a vicenda e anche arrivare ai microfoni di una radio per far sapere a tutti che la disperazione non serve, che bisogna piuttosto darsi da fare, che le idee non mancano e il cammino fatto in comunità può essere anche gioioso.