La marcia nacque in piena guerra fredda per volontà di Aldo Capitini, il più importante studioso italiano della nonviolenza. Dopo la prima edizione, nel settembre del 1961, Capitini commentò: “Abbiamo dimostrato che il pacifismo e la nonviolenza non sono inerte e passiva accettazione dei mali esistenti, ma sono attivi e in lotta, con un proprio metodo che non lascia sosta nelle solidarietà che suscita, nelle non-collaborazioni, nelle proteste, nelle denunce aperte”.
Idee screditate nel tempo presente, dove spesso i non-violenti sono apostrofati come velleitari, ingenui e anche vigliacchi. A ogni nuova occasione commentatori vari giudicano e stabiliscono ciò che i pacifisti dovrebbero o non dovrebbero fare per dimostrare di essere sinceri: sono loro a indicare quando si sarebbe dovuto marciare e quando sarebbe stato invece giusto restare a casa. Politici e giornalisti appiccicano marchi di anti-americanismo, filo-putinismo e anti-semitismo; accusano i pacifisti di odiare l’Occidente e i suoi valori; alimentano il disprezzo, appiccicando etichette: “pacifinti”, “panciafichisti”, “scemi di pace”.
Si diffonde così nell’opinione pubblica l’idea che i pacifisti siano degli imbelli ipocriti che marciano quando fa loro comodo e se non marciano vuol dire che non fanno nulla, come se l’attivismo pacifista si esaurisse camminando per le strade e sventolando bandiere variopinte. Invece, una volta riposte le bandiere nel cassetto, i pacifisti fanno: li troviamo volontari nei campi profughi o intenti a raccogliere cibo e medicine per Gaza; alcuni rischiano il congelamento e l’arresto per curare e sfamare migranti lungo la rotta balcanica, altri vanno in mare aperto a salvare naufraghi; altri ancora sono in posti innominabili ad aiutare disertori russi, bielorussi e ucraini e ne troviamo a Gerusalemme, impegnati a promuovere il dialogo fra ebrei israeliani e arabi palestinesi. Tutte attività coerenti con quel pensiero, filosifico e politico, laico e religioso, che ha origini antiche, che oggi definiamo pacifismo e nonviolenza e che non si nutre di passività ma di azioni concrete. È in questo filone che si sono innestate la lotta disarmata degli indiani contro l’impero britannico e quella degli afroamericani contro il segregazionismo; a questo si sono ispirati i 500 pacifisti italiani andati a rompere l’assedio di Sarajevo, nel dicembre del 1992. L’argomento centrale del pensiero non-violento, come ben illustrato da Gandhi, è che gli individui, per potersi definire pienamente umani, devono imparare a risolvere i loro conflitti senza far ricorso alla violenza. Come ha sottolineato spesso il Dalai Lama: “Ogni qualvolta sorgono conflitti e disaccordi la nostra prima reazione deve essere di chiederci come possiamo risolverli attraverso il dialogo anziché usando la forza”. Questa attitudine non deve però riguardare solo gli individui, ma regolare anche i rapporti fra le comunità, i popoli, le nazioni, traducendosi in istituzioni sovranazionali e norme universali, capaci di rafforzare i legami e risolvere le controversie senza l’uso delle armi: una questione che si è fatta pressante da quando la proliferazione delle armi nucleari ha reso possibile l’annientamento totale.
I pacifisti non rinunciano, dunque, al conflitto, ma elaborano metodi per risolverlo senza l’uso della violenza, perché non concepiscono che le proprie ragioni debbano essere difese sopprimendo e soggiogando il nemico. In maggioranza i pacifisti non contestano neanche la resistenza contro l’oppressore: nessuno ha mai affermato che non si dovesse abbattere ad ogni costo il nazifascismo, né sostenuto che gli ucraini non debbano opporsi all’invasore con ogni mezzo. Lo stesso Gandhi affermò che, quando non si è capaci di organizzare una lotta non-violenta, è preferibile una reazione violenta alla passiva sottomissione alla brutalità del tiranno. Ma la storia deve pure essere maestra e dobbiamo perciò chiederci se vogliamo periodicamente tornare a ucciderci, in guerre sempre più devastanti, o se non possiamo invece imparare dagli errori del passato e studiare il modo di prevenire i conflitti o perlomeno adottare nuovi modi per affrontare il nemico, senza dare ogni volta occasione all’industria bellica di accumulare enormi profitti sulla carne bruciata dei bambini.
Dopo due devastanti guerre mondiali l’Europa ha saputo costruire duraturi legami di amicizia e cooperazione che l’hanno fatta prosperare, cosa ci spinge a rinunciare a tutto questo per tornare, rassegnati, a scannarci?
Dopo lunghe sofferenze imposte dal mondo al popolo ucraino tutti hanno ormai compreso che quel conflitto potrà concludersi solo con un compromesso. Dopo due anni di guerra atroce scatenata sulla popolazione dei gazawi solo un accordo ha riportato gli ostaggi israeliani a casa: accordi e compromessi necessari, che non sono la pace, ma solo cessazione temporanea e incerta delle ostilità. Per ricostruire la pace vera ci vorrà invece molto tempo, forse intere generazioni continueranno a odiarsi, prima che sia raggiunta.
I pacifisti guardano al mondo da una prospettiva diversa rispetto a quella dei politici e degli economisti e può darsi che non abbiano sempre ragione, ma si tratta di un punto di vista che ha fondamento e dignità, che merita rispetto e deve avere diritto di parola, accanto ad altri, senza che sia continuamente denigrato. Non siamo né “pacifinti” né “panciafichisti” e nemmeno “scemi di pace”.
Perlopiù siamo persone serie e da chi ama appioppare nomignoli preferiremmo essere chiamati “paciseri”; guardiamo verso un orizzonte che non potremo raggiungere nel corso della nostra esistenza ma verso il quale vale la pena continuare a camminare. Noi ci crediamo davvero e gli attacchi dei commentatori perditempo non ci faranno cambiare idea, perché ci sembra evidente che riarmare il mondo, quando sarebbe invece il tempo della cura, sia davvero una pessima idea.
Per questo è stata lanciata “Stop Rearm Europe”, ennesima campagna che porteremo avanti, s’intende senza violenza, sperando di convincere tanti delle nostre buone ragioni, accompagnati dalla voce di John Lennon che continua a viaggiare per il mondo: “Potrete dire che sono un sognatore, ma non sono l’unico e spero che un giorno vi uniate a noi e il mondo possa essere uno”.
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