Satnam Singh aveva trentuno anni ed era un immigrato, un bracciante sfruttato, un indiano del Punjab assoldato al nero dai caporali di Latina, uno lavoratore anonimo che si spaccava la schiena nei campi per pochi soldi. Ma prima di tutto ciò era un essere umano, uno come noi, un giovane uomo con braccia, gambe, testa e cuore.
Per sbarcare il lunario è finito stritolato da una maledetta macchina, che gli ha fratturato le gambe e amputato un braccio. È accaduto nella pianura Pontina delle grandi aziende che producono l’eccellenza agricola italiana, nei cui campi si lavora come schiavi.
Satnam Singh era uno che non dobbiamo per forza chiamare “bracciante indiano” o “immigrato clandestino”, perché aveva un nome e noi lo conosciamo. Da tre anni lui e la moglie Alisha si trovavano in Italia e lavoravano per la stessa azienda: senza contratto, senza permessi, ma con buone braccia per fare arricchire il padrone.
Satnam Singh forse si sarebbe potuto salvare, ma il padrone, anziché soccorrerlo, lo ha caricato su un furgone e l’ha scaricato, agonizzante, davanti a casa sua, gettando poi a terra una cassetta dove aveva riposto quel che restava del braccio. Sono trascorse due ore dall’incidente prima che qualcuno potesse chiamare i soccorsi, mentre il giovane bracciante soffriva e si dissanguava e tutto questo è certo l’aspetto più brutale e sconvolgente della vicenda, il fatto che l’ha proiettata sui media di tutto il mondo: “Gettato via come spazzatura”, “Abbandonato per la strada anziché portato in ospedale”, “Come in un film dell’orrore”, hanno titolato i quotidiani in India.
Per il suo datore di lavoro Satnam Singh non era abbastanza umano da meritare soccorso, era solo un mezzo di produzione, come una falce o un trattore. Qualcosa di cui liberarsi quando non serve più. Un corpo da togliere di mezzo, perché la produzione non si deve fermare e uno così, quando si fa male, porta solo guai.
Il feroce e disumano padrone dell’azienda, in un’intervista televisiva, ha persino avuto il coraggio di dare la colpa dell’incidente al bracciante morto, che non ha nemmeno chiamato per nome, forse perché quel nome lui nemmeno lo conosceva: “Mio figlio aveva detto al lavoratore di non avvicinarsi troppo al mezzo, ma il lavoratore ha fatto di testa sua. Una leggerezza che è costata cara a tutti”. Nessuna pietà, nessun dolore per l’uomo massacrato, nessun rimorso per non averlo soccorso. Viene spontaneo domandarsi dove sia finita l’umanità se davvero lo straniero che lavora per te è solo un pezzo di carne da sfruttare e poi gettare; se la prima reazione davanti a un corpo straziato non è di prestare soccorso ma di toglierselo di torno come fosse immondizia maleodorante.
“Ho visto l’incidente – ha raccontato la moglie di Satnam, intervistata da Repubblica –: ho implorato il padrone di portarlo in ospedale, ma lui doveva salvare la sua azienda, ha messo davanti a tutto la sua azienda, ha preso i nostri telefoni per evitare che si venisse a sapere delle condizioni in cui lavoriamo. Poi ci ha messi sul furgone togliendoci anche la possibilità di chiamare i soccorsi”.
Il ministruncolo dell’agricoltura si è affrettato a dire che non bisogna criminalizzare la categoria, perché “queste morti non dipendono dagli imprenditori agricoli ma da criminali”.
Deve imperversare qui uno stato di confusione mentale, visto che lo stesso governo che ha fatto della lotta feroce all’immigrazione clandestina il suo cavallo di battaglia vuole convincere il Paese che il comparto agricolo, che la impiega e la sfrutta profusamente, è fatto di imprenditori sani e onesti, omettendo di ricordare che nei campi in Italia lavorano al nero 230.000 lavoratori illegali, schiavi dell’era moderna, migranti stagionali, privi di permesso e di contratto, che si spaccano la schiena per dodici ore al giorno sotto il sole implacabile, per una paga che va dai due ai tre euro l’ora. Lavoratori di cui si finge di ignorare l’esistenza, per non disturbare la produzione. Uomini e donne che emergono dall’anonimato solo quando muoiono. Ci vogliono convincere che lo sfruttamento della manodopera è necessario per mantenere bassi i prezzi, ma a sfruttare non sono certo i piccoli agricoltori ma le grandi aziende, che beneficiano di notevoli contributi pubblici e puntano solo al massimo profitto e la sorte orribile di Satnam Singh è il prezzo di quel profitto a tutti i costi, perciò, per quel corpo straziato abbandonato agonizzante a dissanguarsi, dobbiamo provare non solo vergogna, ma anche rabbia.
La rabbia, per fortuna, è scoppiata e ha fatto montare la protesta. I lavoratori sfruttati sono scesi in piazza a migliaia e questa è certo una buona notizia: forse non basterà ai colpevoli di omissione di soccorso pagare buoni avvocati per farla franca. Uno dei braccianti che lavorava con Satman Singh ha deciso di testimoniare, anche se questo potrebbe costargli la deportazione, perché anche lui è un irregolare. Anche questo gesto coraggioso è un segnale di speranza: la speranza che non bastino le parole rassicuranti di un ministro di poco valore per mettere tutto a tacere. La speranza che forse da questo episodio triste e brutale potrà nascere un movimento di protesta abbastanza grande da cambiare davvero qualcosa, intaccare il velo di omertà che copre lo sfruttamento di tanti lavoratori agricoli semi schiavizzati. Se questo accadesse potremmo almeno dire che la tragica morte di Satman Singh sarebbe servita ad aprire la strada al cambiamento.
I volenterosi si stanno organizzando e tutti coloro che credono nella giustizia dovrebbero sostenerli, sapendo che, comunque, a dispetto di questa morte disumana, ogni giorno i braccianti continuano a lavorare nei campi di mezza Italia per un misero ricavo, senza diritti e senza garanzie, mentre i padroni si arricchiscono.
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