Il discorso di un leader in guerra, deciso ad andare fino in fondo, convinto delle sue ragioni e non disposto ad ascoltare quelle altrui.
Dal podio il primo ministro israeliano non ha esitato a definire le Nazioni Unite una “palude antisemita”, condannando la storia intera dell’istituzione, letta attraverso la lente di una nazione che si dice perseguitata da quel consesso; uno Stato che si autodefinisce unica democrazia del Medio Oriente, che da quell’Assemblea ha ricevuto innumerevoli risoluzioni di condanna.
Netanyahu ha delineato la situazione storica utilizzando concetti biblici illustrati come verità incontrovertibili; una visione secondo cui Israele rappresenta il bene ed ha una missione storica da compiere mentre l’Iran e i suoi alleati costituiscono l’essenza del male, da combattere e annientare.
Ai delegati sono state presentate due possibili mappe del Medio Oriente prossimo venturo: la versione nera in cui vorrebbero trasformarlo i terroristi islamici e quella bella, democratica e felice del progetto israeliano. Una visione manichea, precisata dalla domanda provocatoria rivolta all’assemblea: “Quale di queste due carte geografiche sarà vera in futuro? Avremo la benedizione di pace e prosperità per Israele, i suoi partner arabi e il resto del mondo o la maledizione in cui l’Iran ed i suoi alleati diffondono il caos e la carneficina? Israele ha scelto il suo cammino e rafforza il partenariato con i suoi vicini arabi mentre combatte le forze del terrore che minacciano la pace”.
In questa versione della storia, chi non condivide il progetto di Israele si trova necessariamente a fianco dei terroristi di Hamas e dei fanatici pasdaran di Teheran. Non è concesso azzardare ipotesi diverse, analisi alternative: ogni altra idea è catalogata come tradimento, disprezzo antisemita.
Mentre riascoltavo quell’intervento guerrafondaio pensavo all’opera dello scultore svedese Reuterwald, esposta nei giardini del Palazzo di vetro: una pistola dalla canna annodata, illustrazione fin troppo didascalica della speranza che il mondo aveva espresso nel fondare le Nazioni Unite. Da tempo l’immagine di quel consesso si è appannata, ma le accuse di covo antisemita offendono quel po’ di prestigio rimasto all’istituzione.
Netanyahu, peraltro, ha usato lo strumento che tanti altri leader hanno utilizzato per sostenere la legittimità delle proprie azioni: la menzogna. Basti pensare alla bugia russa, secondo cui l’invasione dell’Ucraina sarebbe un’operazione per “denazificare” il Paese; o a quelle raccontate dagli americani, dalle “armi di distruzione di massa”, per giustificare l’invasione dell’Iraq di Saddam Hussein, alla frottola secondo cui il regime talebano venne abbattuto per democratizzare l’Afghanistan e salvare le donne dall’oppressione, “verità”, quest’ultima, smentita dallo stesso presidente Biden quando le sue truppe hanno restituito il potere ai talebani.
La menzogna è la grande protagonista della politica internazionale e Netanyahu non è stato da meno affermando che il suo Paese fa di tutto per tutelare la vita dei civili, mentre le bombe a Gaza continuano a dilaniare bambini innocenti, i coloni in Cisgiordania compiono razzie, l’esercito d’Israele attacca illegalmente il Libano ed i suoi servizi segreti realizzano attentati terroristici spettacolari, provocando esplosioni indiscriminate in luoghi pubblici.
Eppure, sulle bugie di un leader che, secondo molti osservatori, ha bisogno di questa guerra per restare al potere, perché fuori dal palazzo lo attende la magistratura, è calata una cortina di silenzio, forse perché gli Stati Uniti ed i loro alleati vedono di buon occhio un Israele pronto ad annichilire l’Iran e cacciare i pasdaran da Teheran.
Il piano israeliano che affascina Washington richiama però i versi ironici di una vecchia canzone di Bennato: “Arrivano i buoni e hanno le idee chiare, hanno già fatto un elenco di tutti i cattivi da eliminare. Hanno fatto una guerra contro i cattivi ma hanno detto che è l’ultima guerra che si farà”.
Già altre volte ci si è appellati alla necessità di promuovere l’ultima guerra contro il cattivo di turno. Nessuna persona di buon senso rimpiange Saddam Hussein, Gheddafi o il mullah Omar ma nessuno di quei Paesi versa oggi in condizioni migliori e nessuna guerra è mai davvero l’ultima.
Come gli USA che, da sempre, si sentono investiti di una missione divina, anche Israele si presenta oggi come un Paese con un destino preciso, che ha un compito fra le nazioni, una responsabilità ineluttabile che gli deriva da antica elezione e che non può essere disattesa. Non a caso Netanyahu ha citato Re Salomone, che regnava 3000 anni fa a Gerusalemme e ha concluso il suo discorso profetizzando che: “L’eternità di Israele non vacillerà”.
Ma come può apparire credibile una nazione che si progetta come Stato etnico e si propone come guida di un processo di pace e prosperità per il Medio Oriente mentre continua imperterrita a fare strage di civili? L’Iran del futuro che propone Israele sarà un posto migliore di quel che è oggi, o subirà lo stesso destino delle altre nazioni “liberate” dall’Occidente?
Netanyahu ha lanciato l’appello ad appoggiare i dissidenti iraniani che lottano contro il regime degli Ayatollah ma sembra non essersi accorto del fatto che la società civile, in Occidente, già sostiene quella lotta, mentre sono proprio i governi che la ignorano, in nome del business, vera stella polare dei rapporti con l’antica Persia. Siamo in tanti a sostenere le donne coraggiose e forti che si ribellano al regime teocratico e ipocrita di Teheran e ne auspichiamo la caduta, ma non ci auguriamo che questa avvenga mediante una guerra che provocherebbe morte e distruzione, sofferenza e instabilità. Deve essere il popolo iraniano a riconquistare la propria libertà, aiutato dalla solidarietà internazionale dei popoli e delle nazioni.
Non esiste la guerra dei buoni contro i cattivi, altra è la vita da percorrere per la pace e passa, in larga misura, dal riconoscimento della dignità e dei diritti al popolo palestinese. Ma in quella mappa del futuro radioso che Netanyahu ha presentato alle Nazioni Unite dei palestinesi non c’è traccia, mentre a Gaza, ogni giorno, i bambini continuano a morire di fame e di bombe.
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