Manca ancora un mese e mezzo alla presentazione del budget, ma il ministro degli Interni Peter Dutton, insieme al ministro delle Forze dell’ordine Angus Taylor, ha già annunciato un importante stanziamento di quasi $70 milioni nella finanziaria di quest’anno. A beneficiarne sarà una nuova agenzia contro la pedofilia e lo sfruttamento minorile, che nascerà dal dipartimento della polizia federale dedicato alla protezione dei minori (il cui personale verrà potenziato del 30% nel corso del prossimo anno finanziario e di un ulteriore 30% in quello successivo) e prenderà il nome di Australian Centre to Counter Child Exploitation.

Dutton e Taylor hanno sottolineato che la piaga degli abusi sui minori si sta allargando, soprattutto a causa delle nuove tecnologie che permettono ai pedofili di contattare bambini e condividere immagini incriminate più facilmente e su scala globale. La nuova agenzia, ha detto Taylor, “manderà a chi commette questi crimini il chiaro messaggio che verranno scovati”. Il centro avrà sede a Brisbane per via, hanno detto i ministri, della sua vicinanza con l’Asia. Ma, secondo le malelingue, soprattutto della sua vicinanza con l’elettorato di Dutton.

Un portavoce del senatore del Justice Party, Derryn Hinch, notoriamente impegnato nella lotta contro la pedofilia, ieri si è espresso a favore dello stanziamento, rifiutando però di commentare se l’annuncio sia in alcun modo legato alle trattative in corso con il governo Turnbull per appoggiare sgravi fiscali alle grandi aziende. I negoziati, ha fatto sapere il portavoce, continuano e sono riservati.

Dando ormai per scontato il supporto dei tre senatori di One Nation, dopo l’accordo sugli apprendistati, il governo può contare anche sui voti di Fraser Anning (indipendente ex One Nation), Cory Bernardi (conservatore), David Leyonhjelm (liberal democratico) e Steve Martin (indipendente) ma deve ancora assicurarsi quelli di Hinch e del neo-eletto senatore indipendente del South Australia, Tim Storer, per poter approvare i tagli del 30-25% per le aziende con un fatturato oltre i $50 milioni.

Ieri, le testate del gruppo News Corp suggerivano che Hinch avesse chiesto al governo di abbandonare l’idea di abolire il sussidio per le bollette (Energy Supplement) per i nuovi destinatari del welfare in cambio del suo sostegno. “Il senatore Hinch ha a cuore il benessere dei pensionati, di coloro che fanno fatica a pagare l’affitto e dei redditi medio-bassi” si è limitato a dire il suo portavoce.

Parlando ieri alla Abc, il senatore Leyonhjelm si è detto “abbastanza certo” che alla fine Hinch si schiererà dalla parte del governo e voterà a favore dei tagli. Il liberal-democratico ha anche sottolineato come Pauline Hanson abbia ‘venduto’ i propri al “prezzo relativamente basso” di $60 milioni da spendere in un programma pilota per 1000 posti di apprendistato rivolti ai giovani, soprattutto delle zone rurali e regionali. Un numero quasi irrisorio se si pensa, come ha fatto subito notare il senatore laburista Murray Watt, che, dal 2013, il governo ha tagliato ben 140mila apprendistati (e i laburisti, ai tempi del primo ministro Julia Gillard, non avevano fatto meglio).

I giochi comunque non sono ancora chiusi e il voto in Senato potrebbe rivelare qualche sorpresa. Il governo, con il ministro delle Finanze Mathias Cormann in prima linea, continua a insistere che un mancato taglio delle tasse alle imprese porterebbe a un calo degli stipendi e degli investimenti, con un conseguente aumento della disoccupazione.

L’opposizione non è d’accordo. Per trovare i 65 miliardi necessari a finanziare questo ‘regalo’ alle grandi aziende, ha messo in guardia ieri il ministro ombra per l’Impiego, Brendan O’Connor, l’esecutivo si troverà costretto ad aumentare le tasse per i redditi medi e a tagliare fondi destinati a sanità e istruzione. Il partito laburista, ha aggiunto O’Connor, è favorevole ad alleggerire la pressione fiscale sulle piccole e medie imprese che investono in Australia, ma non sulle grandi multinazionali come proposto dal governo. Misura che, ha detto O’Connor, favorirà per la maggior parte azionisti stranieri.

Il ministro ombra laburista inoltre ha rifiutato la teoria sostenuta dal governo secondo cui i tagli fiscali per le grandi aziende porteranno “per osmosi” a salari più alti e a maggiori assunzioni. “Non molti economisti sostengono questa teoria” ha fatto notare O’Connell, parlando del cosiddetto ‘trickle-down’, di cui anche il presidente Usa Donald Trump è fautore. E secondo Laura Tingle del Financial Review, dietro alla proposta ci sarebbe proprio il tycoon: i tagli fiscali non avrebbero nulla a che fare con l’Australia ma tutto a che vedere con gli investitori statunitensi che il governo starebbe cercando di compiacere.

Infatti, secondo quanto sbandierato dal governo la scorsa settimana, che ha parlato di livelli record di assunzioni (dati che bisognerebbe però leggere con attenzione, guardando anche all’aumento dei contratti casual, part-time e a progetto), le aziende non sembrerebbero aver bisogno di nessun ‘aiutino’. Anche gli investimenti al di fuori del settore minerario lo scorso anno sono cresciuti del 10%, il miglior risultato degli ultimi quattro anni e il doppio rispetto alla media di crescita del 5% negli ultimi 30 anni. Come giustificare quindi la necessità degli sgravi?

Nessuna azienda che ne beneficerà ha inoltre specificato quali investimenti farà in caso la proposta venga approvata. Nulla di strano, dato che i tagli non partiranno fino al 2022-23 e raggiungeranno pieno compimento solo nel 2026-27. Prima che si veda alcun effetto sui salari, quindi, ci vorranno almeno quattro anni.

Che la crescita dei salari avverrebbe sul lungo periodo lo dicono anche le ricerche dello stesso governo e non si sa ancora esattamente a quanto ammonterebbe. Il ministero del Tesoro stima che potrebbe essere dello 0,4%, ma secondo una ricerca dell’economista Chris Murphy dell’Australian National University, che prende in considerazione le recenti modifiche alla tassazione per le aziende negli Usa, si fermerebbe allo 0,29%. Altri studi mettono proprio in discussione che il taglio porterebbe a un aumento degli investimenti stranieri.

Quel che è certo è che i tagli porterebbero meno soldi nelle casse dello Stato e i cittadini potrebbero sentire prima l’effetto negativo di altri tagli necessari a limitare l’impatto sul budget che l’effetto positivo, promesso ma tutto da verificare, dell’aumento degli investimenti, della produttività e quindi degli stipendi che, come Godot, potrebbe anche non arrivare mai.