La scorsa settimana, a tenere banco sulla scena internazionale, è stato nuovamente il presidente Usa Donald Trump. Martedì, il capo della Casa Bianca ha incontrato a Singapore il leader nordcoreano Kim Jong-un con cui ha firmato un documento congiunto (articolo a pagina 10).
Lo storico incontro tra i due leader è stato accolto con generale cautela ma sicuramente come un passo avanti positivo, sebbene i benefici concreti sul piano della pace e della stabilità globale siano ancora tutti da verificare.
Due politici anti-immigrazione norvegesi hanno addirittura proposto la candidatura del presidente Trump al Nobel per la pace per aver compiuto “un enorme e importante passo verso il disarmo, la pace e la riconciliazione tra le due Coree”.
Ma, con una delle sue solite imprevedibili mosse, il presidente Trump non ci ha messo molto a smorzare l’ottimismo del mondo e far perfino parlare di venti di guerra.
Il primo passo falso, sulla scia del summit di Singapore, è stato quello di annullare le esercitazioni militari congiunte con la Corea del Sud, definite da Trump una “provocazione” nei confronti di Pyongyang. Una decisione non concordata in precedenza che ha colto di sorpresa sia gli ufficiali dell’esercito Usa di stanza nel Paese asiatico sia gli alleati sudcoreani.
Alcuni analisti lo avevano anticipato: Trump preferisce le transazioni alle alleanze, aveva detto il corrispondente del New York Times da Singapore David Sanger; Trump vede le altre nazioni non come alleati ma come competitor in un gioco a somma zero, aveva scritto la rivista britannica New Statesman dopo il vertice con Kim.
Il primo ministro Malcolm Turnbull, intervistato sul summit di Singapore durante la sua visita in Tasmania per la campagna elettorale per le suppletive nel seggio di Braddon, non ha voluto addentrarsi sulle implicazioni future dell’incontro per la regione Asia Pacifico, limitandosi a dire che Trump ha approcciato Kim Jong-un “in un modo molto personale e colorito”.
Il ministro degli Esteri Julie Bishop non è stata altrettanto diplomatica e ha dichiarato che gli Stati Uniti devono chiarire le loro intenzioni circa le esercitazioni militari, aggiungendo che l’Australia è preoccupata dal fatto che gli Usa prendano decisioni che danneggiano proprio coloro che hanno fatto in modo che Pyongyang accettasse di incontrare Trump, in primis grazie alle sanzioni economiche contro il regime imposte lo scorso settembre con una decisione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu votata anche da Russia e Cina.
Proprio contro la Cina si è verificato il secondo, e più allarmante, passo falso del presidente Trump che rende sempre più concreto il rischio di una guerra commerciale tra Washington e Pechino di cui si sente parlare ormai da un anno: il capo della Casa Bianca ha annunciato l’entrata in vigore di dazi per 50 miliardi di dollari sulle importazioni dalla Cina a partire dal prossimo 6 luglio.
Nonostante la minaccia di ulteriori misure in caso di rappresaglie, la Cina ha risposto a stretto giro alzando i dazi su 659 prodotti Usa, tra cui aerei, automobili, carne di manzo, whisky e succo d’arancia, sempre a partire dal 6 luglio. Ulteriori dazi saranno annunciati prossimamente, secondo l’agenzia di stampa Xinhua che ha riportato che “la decisione Usa viola le norme dell’Organizzazione mondiale del commercio e i risultati raggiunti in precedenza durante i negoziati commerciali tra Cina e Usa”. Risultati che, a quanto annunciato dal ministro del Commercio cinese, sono ora nulli.
In un comunicato online, il ministero del Commercio ha dichiarato che “la Cina non vuole una guerra commerciale ma non ha altra scelta che opporsi con forza [a queste misure], a causa del comportamento miope degli Stati Uniti che farà del male a entrambe le parti” e ha chiesto alle altre nazioni di “agire collettivamente” contro questo “comportamento arcaico e retrogrado”.
I dazi contro Pechino arrivano dopo quelli contro gli alleati di Canada, Messico e Unione europea che, nei giorni scorsi, avevano portato a un grave scontro con il premier canadese Justin Trudeau.
Ora le misure contro la Cina mettono in una posizione vulnerabile un altro alleato di Washington: l’Australia. Sia governo che opposizione hanno espresso la loro preoccupazione per le rappresaglie in stile ‘occhio per occhio’ istigate dai dazi statunitensi.
Intervenuta ieri al programma Insiders dell’ABC, il ministro ombra degli Esteri Penny Wong ha definito la decisione di Trump “uno sviluppo molto negativo” che rischia di causare instabilità nelle relazioni bilaterali. Anche il ministro degli Esteri Julie Bishop si è detta preoccupata delle rappresaglie reciproche tra Stati Uniti e Cina, dicendo che l’Australia continuerà a farsi promotrice del libero commercio. “È una posizione che abbiamo espresso in modo estremamente chiaro ai nostri amici americani” ha aggiunto.
Da parte sua, il ministro del Commercio Steven Ciobo ha detto che i dazi saranno un freno alla crescita globale e ha sottolineato che “un terzo della crescita del Pil australiano viene dall’aumento delle esportazioni derivate dall’apertura verso Cina, Singapore, Giappone, Corea, Hong Kong, l’Ue e il Regno Unito”.
L’avvertimento più netto è arrivato dalla Camera di Commercio: nessuno vince in una guerra commerciale, soprattutto non un Paese commerciale come l’Australia. Il Ceo James Pearson ha detto che, anche se ci potrebbero essere dei vantaggi a breve termine per i produttori locali (come gli allevatori di manzo) che otterrebbero più facile accesso al mercato cinese e americano, questi benefici – secondo Pearson - non dureranno e i prodotti australiani fatti in Cina rischierebbero, ad esempio, di restare in larga parte invenduti senza un accesso agli Usa.