Scampato il pericolo di un possibile stop dell’Alta corte, il primo ministro Malcolm Turnbull deve aver deciso che vale pena essere un po’ più esplicito nel suo sostegno ai matrimoni omosessuali. Ieri, nel giorno in cui oltre 30mila persone sono scese in piazza a Sydney nella più grande manifestazione di sempre in Australia a favore dell’uguaglianza matrimoniale, Turnbull è intervenuto alla presentazione della campagna dei liberali e dei nazionali del New South Wales per il Sì parlando di questione di “giustizia” e sottolineando che, nei Paesi dove la legge è stata approvata, il matrimonio tradizionale non è in alcun modo stato compromesso.
“A minacciare il matrimonio non sono le coppie gay ma la mancanza di impegno che vediamo al giorno d’oggi […], l’indifferenza, la crudeltà o l’adulterio” ha detto il primo ministro davanti a circa 130 membri della Coalizione, tra cui gli ex premier del NSW Barry O’Farrell e Nick Greiner e la sorella di Tony Abbott, Christine Forster, consigliere comunale nella città di Sydney e apertamente omosessuale.
Non sarà al pari del leader dell’opposizione Bill Shorten, che ha partecipato personalmente alla manifestazione, ma è pur sempre qualcosa in più da parte di un primo ministro che tutti si aspettavano avrebbe tenuto un profilo basso sulla questione.
La campagna, quindi, prende ufficialmente il via. Ne avremo per quasi un mese, il ‘sondaggio’ gestito dall’Ufficio di statistica chiuderà infatti il 7 novembre (le schede ricevute dopo questa data non verranno conteggiate) e il 15 novembre i risultati verranno resi noti. Molti temono che i toni possano diventare molto accesi e hanno chiesto al parlamento di imporre linee di condotta chiare per la campagna. Un accordo tra governo e opposizione per una legge in questo senso potrebbe essere svelato già oggi.
Intanto però, anche questa settimana, il dibattito sarà dominato dall’energia, con Turnbull e il ministro dell’Energia Josh Frydenberg che proprio oggi incontreranno il Ceo di AGL, Andy Vesey, per discutere del futuro della centrale a carbone di Liddell, che l’azienda vuole chiudere o vendere nel 2022.
Ieri, intervistato dalla Abc, il ministro del Tesoro Scott Morrison ha affermato che il governo è pronto ad assumere un ruolo attivo per assicurare che la centrale rimanga aperta e ha insinuato che AGL stia agendo solo per proteggere i propri interessi: “Non mi sorprende che una grande compagnia elettrica voglia che un’importante fonte di approvvigionamento energetico esca dal mercato”, d’altra parte “questo comporterebbe un aumento dei prezzi che favorirebbe le compagnie elettriche” ha detto Morrison, aggiungendo che la decisione di trasformare la centrale a carbone in centrale a gas spetta all’azienda e non al governo, ma che Canberra vuole mantenere un certo numero di centrali a carbone per assicurare l’affidabilità della produzione elettrica.
Carbone sì, carbone no, questo è il problema. È accettabile una presa di posizione ideologica (quello che secondo Turnbull l’opposizione continua a fare) oppure bisogna mantenersi pragmatici e pensare al ‘qui ed ora’? Lo scorso fine settimana, questi interrogativi hanno causato un battibecco anche in seno alla stessa Coalizione.
Il congresso federale dei nazionali ha approvato una mozione che chiede di cancellare, nell’arco di cinque anni, i sussidi alle energie rinnovabili, che il senatore del Queensland e ministro delle Risorse, Matthew Canavan, ha definito “una ‘botta di zuccheri’ a breve termine” per la creazione di posti di lavoro. Una definizione rifiutata dal ministro Frydenberg, secondo il quale le rinnovabili contribuiscono in modo importante al fabbisogno energetico australiano sul lungo periodo, grazie alla diminuzione dei loro prezzi e di quelli delle tecnologie di stoccaggio.
Diversi esponenti dei nazionali, e lo stesso leader Barnaby Joyce, hanno detto di non essere contrari a priori alle energie alternative. “Abbiamo i nostri obblighi internazionali” ha detto il vice primo ministro “ma non dobbiamo perdere di vista la cosa più importante che è, e rimarrà, il carico di base generato dal carbone”. Joyce ha anche dichiarato che accetterà di fissare target sull’energia rinnovabile come previsto dal rapporto Finkel se ci saranno benefici per il carbone ‘pulito’. Scott Morrison sembra essere d’accordo e ieri ha detto che se i laburisti non accetteranno dei target che comprendano il carbone, significa che vogliono imporre “prezzi [energetici] più elevati ai cittadini australiani”.
La battaglia, quindi, continua a essere soprattutto politica. Ma, nonostante il reciproco gioco delle colpe, sono in molti quelli che non dimenticano come si è giunti a questo punto e il vero colpevole degli attuali problemi energetici: l’ex primo ministro Tony Abbott che, nel 2014, abrogò la cosiddetta ‘carbon tax’, l’imposta sulle emissioni inquinanti introdotta tre anni prima dal governo laburista di Julia Gillard, che partiva dal presupposto che sarebbe stato il mercato stesso a decretare la graduale fine del carbone, a eleggere il gas come fonte energetica di transizione, favorendo la progressiva diffusione delle rinnovabili.
Una mossa politica, quella di Abbott, che a breve termine funzionò e gli fece vincere le elezioni. La ‘carbon tax’ venne abrogata ma non gli incentivi per le energie rinnovabili (anche se Abbott ci provò, scatenando inizialmente una picchiata negli investimenti che scesero del 70% nel 2014). Ed eccoci arrivati ai problemi attuali.
Oggi il governo si lamenta che ci siano troppi investimenti nelle rinnovabili e non abbastanza nelle energie che garantiscono il carico di base, come se il problema fosse apparso magicamente o fosse stato creato da qualcun altro, da “Blackout Bill”, ma ha solo i conservatori al suo interno da incolpare.
Alla fine della fiera, mettere i puntini sulle ‘i’ non servirà ad abbassare le bollette degli australiani, bisogna lavorare a una politica chiara che pensi a garantire energia affidabile e alla portata di tutti adesso, ma anche un pianeta sano e vivibile per i nostri figli in futuro.