Australia Day, giorno di festa, di tradizionali barbecues, di conferimento di onoreficenze e di certificati di cittadinanza ma anche, e soprattutto, di proteste e polemiche.

In diverse città d’Australia sabato c’è stata la plastica rappresentazione delle contraddittorie posizioni degli australiani rispetto alla festività nazionale, e in particolare a Melbourne s’è registrata un’immagine decisamente simbolica: da una parte una città pienamente multiculturale che è scesa in piazza per assistere alla tradizionale sfilata celebrativa dell’Australia Day e dall’altra, non troppo distante, un’altrettanto numerosa folla di migliaia di persone che chiedeva invece a gran voce di cambiarne la data.

Il giorno dell’arrivo della Prima flotta guidata da Arthur Phillip, infatti, anno dopo anno, vede montare sempre di più forme di contestazione, con la maggior parte della popolazione aborigena che usa parlare di ‘Invasion Day’ o ‘Survival Day’ e che, di conseguenza, rappresenta quanto sia divisivo un evento che vorrebbe, invece, avere un intento unificatore.

A chi è sceso in piazza sabato, a chi continua a dichiararsi offeso dalle celebrazioni del 26 gennaio non sono bastate e non bastano, evidentemente, le parole del primo ministro Scott Morrison che nel suo messaggio di auguri pubblicato sul The Weekend Australian, ha reso omaggio alla “sacra custodia dei nostri popoli indigeni [che] ha segnato il primo capitolo della storia del nostro paese” e, nel ribadire l’intenzione del suo governo di “rispettare la più antica cultura del mondo”, ha anche fatto riferimento, seppur molto vagamente, alle crudeltà dell’impero britannico (come fosse una sorta di danno collaterale, quello che molti manifestanti nelle piazze delle principali città d’Australia hanno chiamato ‘genocidio’ degli aborigeni). “Crudeltà - continua Morrison - insieme alle quali sono arrivate le idee dell’Illuminismo e “le nozioni di libertà, impresa e dignità umana [che] sono diventate le fondamenta per l’Australia moderna”.

Non possono bastare perché dietro le manifestazioni di piazza ci sono ferite che durano da 231 anni, il senso di smarrimento, di perdita dei diritti più basilari, delle proprie radici culturali che si tramandano in maniera intergenerazionale e, soprattutto, perché le più importanti battaglie sulle materie che tali ferite potrebbero aiutare a rimarginare sono ancora tutte in piedi, se si pensa a quanto, ad oggi, sia ancora distante il riconoscimento in Costituzione del popolo aborigeno.

Eppure, in un contesto di opinioni così divise e contrastanti, è sempre interessante andare a cercare di comprendere cosa, realmente, gli australiani pensino rispetto all’Australia Day: ebbene, uno dei sondaggi più recenti, condotto da Research Now su commissione dell’Institute of Public Affairs, un ‘think tank’ di matrice liberale conservatrice, rivela che il 75% degli australiani ritiene corretto celebrare l’Australia Day il 26 gennaio, il 5% in più rispetto a quanto registrato dallo stesso sondaggio l’anno scorso.

Un altro sondaggio, condotto alla fine di novembre dell’anno scorso dal Social Research Centre dell’Australian National University è andato ancora più in profondità. L’intento infatti non era esclusivamente quello di comprendere se gli australiani fossero o meno a favore del cambio di data della festa nazionale australiana. Molte altre questioni sono state sottoposte ai quasi tremila partecipanti al sondaggio con l’intenzione di analizzare quali aspetti culturali e sociali dei cittadini australiani fossero più fortemente associati all’Australia Day.

Alla domanda principale, formulata con una sorta di antefatto storico, ovvero se gli intervistati fossero d’accordo o in disaccordo sul fatto che il 26 gennaio sia il giorno migliore per celebrare la festa nazionale, il risultato è pressoché identico a quanto emerso dal sondaggio dell’Institute of Public Affairs: il 70% degli australiani intervistati, infatti, è d’accordo sulle celebrazioni del 26 gennaio.

In termini sociodemografici il supporto per l’Australia Day al 26 gennaio registra una sostanziale differenza intergenerazionale, è d’accordo infatti l’83% degli over 55 mentre nella fascia anagrafica 18-34 anni, sono risultati favorevoli soltanto il 53% degli intervistati.

Altrettanto sensibili le differenze per collocazione geografica, con l’83% di consenso in Western Australia e il 65% nel Victoria e per livello di studi.

Ma, e in qualche modo lo si è registrato anche sabato nelle piazze e nelle dichiarazioni di questi giorni, sono molto sensibili le differenze sulla base dell’appartenenza politica: il sostegno più alto, 94%, proviene da chi si dichiara sostenitore di One Nation, e altrettanto elevato è il sostegno, pari all’85%, dei sostenitori della Coalizione, ben superiore rispetto al 65% dei supporters laburisti e del 38% tra i Verdi.

Ciò che emerge da questi dati, osservano Pennay e Bongiorno, è la complessità di sentimenti e di attitudine dimostrata dagli australiani rispetto alla festività nazionale: addirittura, afferma Bongiorno, “una corrente di pensiero dice che gli australiani diano un valore elevato alla data in questione, pur essendo consapevoli delle sue connotazioni negative, ritenendolo un giorno importante nel calendario e dimostrando che l’attaccamento a questo ultimo giorno festivo dell’estate sia ben superiore alla consapevolezza della gravità di quanto commesso contro gli aborigeni”.

La conclusione, dicono i ricercatori, è che “la combinazione di atteggiamenti sembra perfettamente studiata per far sì che questa data resti materia di discordia e continuo dibattito”.

Vedremo quindi cosa accadrà l’anno prossimo, se daremo ragione alle analisi di Pennay e Bongiorno oppure se, come auspica Jack Wakeford sulle pagine del Sydney Morning Herald, Bill Shorten, nonostante la sua attuale riluttanza a essere coinvolto sul tema Australia Day, riuscirà comunque a far compiere significativi progressi a questa vicenda, sempre che, ovviamente, si rivelerà il vincitore delle prossime elezioni federali.

A proposito di percorso verso l’appuntamento elettorale di maggio, come non registrare, sul fronte liberale, il continuo susseguirsi di dichiarazioni di ‘abbandono nave’ da parte di prominenti esponenti dell’attuale governo Morrison. Soltanto nelle ultime 72 ore, infatti, altri due pezzi forti dell’esecutivo hanno dichiarato che, al termine del mandato, non parteciperanno alle elezione per ricontestare il proprio seggio: il ministro per gli affari indigeni Nigel Scullion e il ministro per i servizi umani Michael Keenan.

Tanti i punti interrogativi in casa liberale, ai quali si è aggiunto nelle ultime ore quello relativo al seggio di Warringah, feudo dell’ex primo ministro Tony Abbott. Per insidiarlo, dopo le due indipendenti Alice Thompson e Susan Moylan-Coombs e il candidato laburista Dean Harris, è scesa in campo un’altra indipendente, la campionessa mondiale di sci Zali Stegall che, sulla carta, sembra essere molto più pericolosa, per l’ex primo ministro, rispetto agli altri contendenti.