La sensazione che ci fosse una buona intesa tra i due fu immediatamente chiara nel corso della cena tra le delegazioni australiane e statunitensi durante il G20 di Osaka.

Donald Trump, hanno raccontato gli ospiti presenti, ha trascorso praticamente tutto il tempo della cena parlando con Scott Morrison, curioso di come avesse fatto il primo ministro australiano a vincere un’elezione così complicata. Una fascinazione, quella per il primo ministro australiano, confermata anche qualche ora prima dell’incontro da Trump stesso con uno dei suoi soliti tweet, nel quale, pubblicando alcuni manifesti utilizzati dal governo australiano in occasione del lancio della Operation Sovereign Borders, diceva ci fosse molto da imparare dalla politica australiana contro l’immigrazione clandestina.

Operazione, quella di ‘Sovereign Borders’, dietro la quale c’è proprio Scott Morrison, che, da ministro per l’immigrazione e protezione delle frontiere del governo Abbott, lanciò la politica di tolleranza zero nei confronti dell’immigrazione clandestina.

Dopo poco più di due settimane da quell’incontro, la conferma che la relazione fra i due leader sia decisamente positiva: il primo ministro australiano, secondo quanto riferito da The Weekend Australian, si recherà a Washington a metà settembre in visita di Stato e parteciperà a uno dei più prestigiosi appuntamenti della Casa Bianca, la ‘State Dinner’, a cui è stato invitato dal presidente degli Stati Uniti.

Evento di grande rilievo, inserito all’interno di una visita ufficiale di un capo di Stato estero,  a cui, considerando quelle organizzate finora,  Donald Trump non sembra essere molto avvezzo: dal suo insediamento ad oggi è stata allestita una sola cena di Stato, quella del 24 aprile dello scorso anno che ha avuto come ospite il presidente francese Emmanuel Macron. Le visite di Stato, è noto, sono uno dei più importanti strumenti di consolidamento delle relazioni diplomatiche e, nel caso degli Stati Uniti, l’invito alla cena alla Casa Bianca rappresenta l’apice della visita con tanto di formale cerimonia d’arrivo e accoglienza sul ‘red carpet’ da parte del presidente e della First Lady.

Scott Morrison è il primo leader australiano a ricevere un invito ufficiale alla Casa Bianca dal 2006, anno nel quale fu John Howard a essere invitato, per una visita di Stato, dall’allora presidente George W. Bush.

Altri primi ministri australiani dopo Howard vennero accolti alla Casa Bianca dai presidenti statunitensi, ma i loro viaggi vennero ufficialmente registrati dall’ambasciata statunitense a Canberra come ‘viaggi di lavoro’.

Anche Malcolm Turnbull effettuò, a febbraio dello scorso anno, una visita ufficiale alla Casa Bianca ma in quella occasione non venne organizzata una cena di Stato.

Il primo ministro australiano ha ovviamente accolto con entusiasmo l’invito del tycoon americano, parlando dal ponte della portaerei statunitense USS Ronald Reagan che, al largo del Queensland, sta partecipando alla Talisman Sabre, un’esercitazione militare congiunta Australia - Stati Uniti: “I nostri Paesi - ha affermato Morrison - hanno visto il mondo con gli stessi occhi”.

“Siamo ammirati dalla forza e dalla potenza degli Stati Uniti che questa nave rappresenta in pieno, ma al centro del nostro rapporto di amicizia ci sono i valori e le convinzioni che uniscono i nostri due Paesi”, ha detto il primo ministro che ha celebrato la leadership americana nel Pacifico nel corso della seconda guerra mondiale, affermando che gli Stati Uniti “hanno contribuito a garantire la libertà di cui godiamo oggi”.

Rendendo omaggio e citando il presidente a cui è intitolata la portaerei, Scott Morrison ha parlato “delle ‘verità e tradizioni’ che definiscono gli Stati Uniti: siamo uniti perché crediamo nella libertà personale, nella democrazia e nelle urne, nello stato di diritto e nella libertà di associazione. Siamo uniti dall’idea di economie libere e popoli liberi”.

Che vi sia una comune visione in termini di liberismo economico non v’è alcun dubbio,  e prova ne è la riforma fiscale appena varata dal governo di ‘reaganiana’ memoria. Fu infatti Arthur Laffer, consigliere economico del presidente Reagan a mettere per primo in pratica quel modello economico di tagli delle tasse ai redditi più alti e alle imprese, che, secondo l’economista, avrebbe garantito benefici a cascata sull’intera società.

Sulla base di questa teoria, infatti, se i governi riducono le tasse ai redditi più alti e alle imprese, questi investiranno i soldi risparmiati andando a generare posti di lavoro e facendo crescere l’economia, con un vantaggio sia per le imprese stesse che per lo Stato in termini di ulteriori tasse.

Eppure dai lontani anni ‘80 sono ormai molti gli studi e le analisi che dimostrano la poca efficacia della ‘trickle-down theory’.

Tra questi c’è un imponente studio condotto dal servizio di ricerca del Congresso degli Stati Uniti che, nell’esaminare dati per oltre 65 anni, ha stabilito come non esista alcuna correlazione tra riduzione della tasse ai redditi più elevati e crescita economica: tali tagli, conclude la ricerca, sono piuttosto da associare con “una crescente concentrazione della ricchezza su fasce già elevate di reddito”.

A questo punto, osserva Mike Seccombe sulle colonne del Saturday Paper, con la previsione di un sistema fiscale meno progressivo, un minore carico sui più ricchi contribuenti, e un conseguente onere maggiore in capo a tutti gli altri, il rischio è degenerare verso una struttura sociale sempre meno egualitaria. Un vero cambio di rotta, purtroppo, per la società australiana che nell’egualitarismo ha sempre trovato la sua cifra caratterizzante.