La settimana scorsa, il dibattito politico è stato dominato dalla cosiddetta diatriba “guns for votes”, armi in cambio di voti. Ovvero il presunto accordo con il senatore liberaldemocratico David Leyonhjelm per ottenere il suo supporto alle iniziative della Coalizione utilizzando come merce di scambio il via libera all’importazione dei fucili Adler A110. Un accordo che sarebbe stato stretto dapprima da Tony Abbott (lui nega, ma esiste una scia di email che collega il suo ufficio direttamente a un’intesa con Leyonhjelm in cambio del suo appoggio alla legge sull’immigrazione) e poi dall’attuale primo ministro Malcolm Turnbull, bisognoso del sostegno del senatore pro-armi sulla legge che ripristina la Commissione di controllo del settore edile (Australian Building and Construction Commission, ABCC).
A scatenare il putiferio è bastato un tweet di Abbott: “Allarmante sentire di mercanzie sulle leggi sulle armi. L’ABCC dovrebbe essere appoggiata per i suoi stessi meriti.” Turnbull gli ha praticamente dato del bugiardo in aula, affermando chiaramente (dopo giorni di vaghezza) l’assenza di qualsiasi piano per annacquare le leggi sulle armi del governo Howard. Altro fronte dello scontro è stata la riforma del partito liberale del New South Wales, dove Tony Abbott non ha voluto rinunciare alla sua mozione, nonostante quella sostenuta da Turnbull e dal premier Baird avesse ottenuto il sì unanime dell’assemblea. A gongolarsi in tutto questo è stato il leader dell’opposizione Bill Shorten che ne ha approfittato per dare credito alla sua versione dei fatti, secondo cui Turnbull non è in grado di garantire un governo stabile a causa delle faide interne al suo schieramento.
Il ministro dell’Industria della difesa e capogruppo liberale alla Camera Christopher Pyne, intervenuto ieri alla trasmissione Insiders della ABC, ha negato che Abbott avesse stretto un patto del tipo “armi in cambio di voti” ammettendo però l’esistenza di una clausola di temporaneità che fissava a 12 mesi la messa al bando delle importazioni del fucile Adler A110. Un limite poi esteso indefinitamente dal governo Turnbull. Pyne ha attaccato il partito laburista, definito più interessato ai “giochi politici” che ai “risultati” chiesti dagli elettori, enumerando quindi i risultati raggiunti la scorsa settimana dal governo di Coalizione: riforma sulla tassazione dei backpacker, ABCC, Registed Organisations Commission, riforma sui prestiti governativi per l’istruzione, plebiscito. “I laburisti farebbero qualsiasi cosa per distrarre” gli elettori da questi risultati, per “distrarre dalla propria guerra civile” tra Shorten e Albanese, ha continuato il ministro sottolineando che il partito liberale è unito dietro Malcolm Turnbull e che gli “espedienti laburisti non hanno alcun effetto sull’operato quotidiano del governo”.
Alla fine, tutto si è concluso con un nulla di fatto, il bando sull’A110 di fabbricazione turca rimane, ma la questione non può essere archiviata come una semplice scaramuccia politica tra Abbott e Turnbull e tra governo e opposizione.
Un accordo c’era, ci sono pochi dubbi a riguardo. Il che fa molto riflettere sulla scarsa importanza che gli attuali rappresentanti politici attribuiscono alla difesa delle leggi sulle armi entrate in vigore vent’anni fa sulla scia del massacro di Port Arthur. Leggi che hanno funzionato se, come riportano i dati dell’Australian Bureau of Statistics, dal 1996 ad oggi, le possibilità di essere ucciso con un’arma da fuoco in Australia sono scese da 0,54 a 0,15 ogni 100mila abitanti: un calo del 72%.
Ma oggi queste leggi necessitano più che mai di essere difese. Un milione di pistole e fucili fu distrutto nel 1996 con il programma governativo di riacquisto delle armi, tuttavia oggi il numero di armi nel paese è salito a 1.026.000 e continua ad aumentare. Dopo aver toccato il record più basso nel 1999, le importazioni di armi hanno ricominciato a salire, raggiungendo il picco lo scorso anno con 104.000 armi da fuoco importate nel Paese.
Ma la maggior parte delle armi proviene dal mercato nero e finisce in mano a trafficanti di droga e gang criminali, alcune delle quali possiedono veri e propri arsenali. Non esistono numeri certi, ma, nel suo primo rapporto desecretato, l’Australian Criminal Intelligence Commission (ACIC) ha parlato di almeno 260.000 armi illegali circolanti nel Paese. Una stima che il capo dell’ACIC, Chris Dawson, ha definito “prudente” e quindi sicuramente al ribasso.
Il rapporto ha spinto il governo a indire per il prossimo anno un’amnistia nazionale che permetterà a tutti i detentori di armi da fuoco illegali di consegnarle senza incorrere in sanzioni. Il ministro della Polizia del Victoria, Lisa Neville, si è schierata a favore dell’amnistia, importante - ha affermato - per ripulire le strade dalle pistole.
Negli ultimi cinque anni, Melbourne in particolare ha visto una crescita esponenziale della diffusione delle armi da fuoco. Il bilancio delle vittime resta più basso che negli anni della famosa ‘Underbelly War’ (1999-2005) ma il numero di reati riguardanti l’uso di fucili, pistole o altre armi di questo tipo è passato dai 1980 del 2011 ai 4947 di quest’anno. Secondo un’indagine di Fairfax Media, negli ultimi 20 mesi ci sono state almeno 99 sparatorie, almeno una alla settimana da gennaio 2015. Lo scorso anno, criminali già noti alla giustizia sono stati trovati in possesso di armi da fuoco 755 volte rispetto a 143 volte nel 2011. Sparano come avvertimento, ad esempio contro chi non paga i debiti, o per regolare altre dispute tra gang. Spesso in pieno giorno, spesso in presenza di passanti innocenti che rimangono feriti o uccisi.
Per questo le leggi sulle armi, che andrebbero invece rafforzate ed aggiornate, possono diventare tutto meno che una pedina di scambio politica. Poco importa che, forse, questa volta si trattava solo di un’idea remota che mai sarebbe stata messa in pratica.