I preparativi sono in corso, con tanto di prove del cerimoniale nei giardini della residenza presidenziale statunitense, secondo quanto riportano i principali media australiani a Washington.

Sabato prossimo, orario australiano, Scott Morrison verrà ricevuto da Donald Trump alla Casa Bianca dopo l’invito rivolto a luglio, per una storica, e molto rara da quando il tycoon è presidente degli Usa, cena di stato.

A differenza dei suoi predecessori Donald Trump dal suo insediamento ha tenuto infatti solo una cena ufficiale, quella con il presidente francese Emmanuel Macron nel mese di aprile dello scorso anno.

Sul perché Trump, a quasi tre anni dalla sua elezione, abbia finora svolto una (due da sabato in poi) cene ufficiali s’è scritto molto: qualcuno parla dei costi di eventi di tal genere, decisamente poco economici (l’Australian Financial Review ha riportato stime che superano il milione di dollari), così come resta solido il sospetto che da parte del vulcanico presidente non vi sia una grande sensibilità per tutto quello che afferisce alla tradizionale etichetta diplomatica.

Ma un dato è certo, l’opportunità per Scott Morrison è da cogliere in tutta la sua importanza, e non solo per ribadire l’eccellente relazione finora stabilita con il presidente statunitense, ma anche per capire, personalmente e direttamente, se e come l’Australia verrà incasellata nelle burrascose relazioni che gli Stati Uniti di Donald Trump hanno a livello internazionale.

Quando, a luglio, la presenza di Scott Morrison a Washington venne annunciata dalla Casa Bianca, nella dichiarazione ufficiale si parlò di “una visita che celebrerà la stretta amicizia e la storia condivisa dei due Paesi e riaffermerà la comune visione per la pace, la sicurezza e la crescita globale”.

La sfida che attende il primo ministro australiano consiste non soltanto nel riaffermare la stretta amicizia tra i due Paesi, sulla quale al momento non sembrano esservi segnali contrari, ma anche e soprattutto nell’indicare al suo interlocutore la visione di politica estera del proprio governo, che non è detto, invece, che sia totalmente in linea con quella di Washington.

È vero che fino ad oggi, almeno a livello di dichiarazioni a favore di telecamera, tra il presidente statunitense e Scott Morrison sembra esserci un’ottima sintonia, confermata anche nel recente incontro al G20 di Biarritz dove il primo ministro australiano era stato invitato in qualità di osservatore esterno e, nonostante questo, ottenne un incontro privato con il capo della Casa Bianca.

Donald Trump sarebbe stato particolarmente colpito dalla imprevista vittoria di Morrison alle ultime elezioni, e questo inevitabilmente garantisce al nostro primo ministro una posizione di vantaggio, perlomeno a livello di fascinazione personale. Risulta altrettanto ovvio invece, chi sia, tra i due Paesi, ad avere una posizione di vantaggio sulla scacchiera geopolitica internazionale, motivo per cui è proprio Scott Morrison a trovarsi davanti alla grande occasione da cui trarre i maggiori vantaggi.

L’auspicio è che Morrison e il suo staff arrivino a Washington capaci di offrire all’interlocutore statunitense non esclusivamente una partnership, già esistente e consolidata, di natura militare, ma, soprattutto in un momento storico così delicato a causa delle tensioni tra Stati Uniti e Cina, di rappresentare  l’Australia come partner commerciale affidabile.

Qualche angolo in questo senso è stato già smussato, la diplomazia australiana a Washington sembra abbia lavorato molto bene in questa direzione, e il blocco dei dazi su alluminio e uranio lo confermano, pertanto il punto di partenza per un incontro fruttifero sembra esserci.

Questo non implica automaticamente che la cena di stato, e i relativi colloqui a latere, possano essere un successo, Donald Trump ha abituato il mondo alla sua imprevedibilità e, soprattutto quando si tratta di relazioni bilaterali, la sua posizione è molto chiara: gli oneri vanno condivisi e la bilancia commerciale non può pendere a sfavore degli Stati Uniti.

Oneri militari, quali quelli che ineriscono alla sicurezza dell’area del sud del Pacifico, sui quali evidentemente dalla Casa Bianca si chiede agli alleati una compartecipazione importante.

Ma anche consolidamento strategico del cruciale quadrilatero delle democrazie nell’area tra l’Oceano Pacifico e l’Indiano: Stati Uniti, Giappone, Australia e India, quattro Paesi che, almeno nelle speranze di Washington, dovrebbero compattarsi contro la temibile Cina, individuata da Trump come la principale minaccia per i propri interessi economici.

Questo potrebbe essere il punto più delicato: l’attuale poca linearità, certamente comprensibile visti i rapporti commerciali, dell’amministrazione Morrison rispetto alla Cina.

Se da un lato, infatti, come ha rilevato Peter Jennings, direttore dell’Australian Strategic Policy Institute, “leggendo i discorsi di Morrison dopo le elezioni, sembra chiaro che condivida il pensiero degli Stati Uniti [sulla Cina]e ne condivide molte delle loro preoccupazioni, d’altro lato ancora non è molto chiaro, almeno all’opinione pubblica, come si intenda articolare queste posizioni preoccupate in maniera netta. La linea ufficiale australiana sulla Cina - ha osservato Jennings sulle colonne del The Weekend Australian - è confusionaria, vi si trovano infatti velati accenni sull’aggressione cinese nel Mar Cinese Meridionale e nelle isole del Pacifico, mischiati ad affermazioni sempre meno plausibili che parlano di ‘interessi condivisi, mutuo vantaggio e rispetto reciproco’ con Pechino”.

Restiamo insomma in attesa di vedere cosa riserverà il menù di questa visita, e non ci riferiamo esclusivamente a quello dello sfarzoso ricevimento a cui i coniugi Morrison sono invitati, ma anche a quello del colloquio tra i due leader e soprattutto delle diplomazie dei due Paesi.