Un incontro in maniche di camicia nel bel mezzo dell’estate australiana tra Malcolm Turnbull e il primo ministro giapponese Shinzo Abe che, venerdì sera, è arrivato a Sydney nell’ambito del suo tour istituzionale in Asia-Pacifico per rafforzare i legami commerciali e di difesa con i Paesi della regione. Non c’è tempo da perdere. Con la presidenza Trump alle porte (il tycoon newyorchese si insedierà alla Casa Bianca questo venerdì), potrebbe infatti aprirsi un’era di instabilità. Il presidente eletto americano rischia di alzare un polverone nei rapporti con la Cina, che ha già infastidito parlando al telefono con la leader taiwanese all’indomani delle elezioni e mettendo in discussione la politica dell’“unica Cina”. Trump rappresenta inoltre un pericolo per il Partenariato Trans-Pacifico (TPP), l’accordo di libero scambio tra 12 nazioni affacciate sul Pacifico, tra cui Stati Uniti, Australia e Giappone, che ha promesso di stracciare non appena metterà piede alla Casa Bianca.
È proprio questo accordo, firmato il 4 febbraio 2016 ad Auckland tra accese controversie, che Turnbull e Abe si sono impegnati a difendere. “Abbiamo concordato sull’importanza del libero scambio”, ha detto il primo ministro australiano dopo il meeting ufficiale sabato pomeriggio alla Kirribilli House, promettendo sforzi concertati per un’entrata in vigore anticipata del TPP e il pronto completamento dei negoziati per la Regional Comprehensive Economic Partnership (RECP) che propone un’area di libero scambio tra i Paesi dell’Asean (Australia, Cina, India, Giappone, Corea del Sud e Nuova Zelanda).
Turnbull e Abe hanno anche concordato un rafforzamento nella cooperazione militare tra Australia e Giappone, dichiarando che continueranno a lavorare a stretto contatto con le forze statunitensi anche sotto la nuova amministrazione per potenziare la sicurezza in Asia-Pacifico.
Quello che i due leader intendono fare, di fronte a un presidente Usa con una scarsa conoscenza della regione, è anzi proporsi come ‘mentori’ e cercare di spingere la propria visione. “La stabilità della regione Asia-Pacifico porta pace e prosperità agli Stati Uniti” era già stato l’ammonimento di Abe a Trump, durante il loro incontro dello scorso novembre. Il primo ministro giapponese era stato il primo leader mondiale ad incontrare il presidente eletto Usa subito dopo la vittoria alle urne. Ora bisognerà vedere se Trump se ne ricorderà o deciderà di proseguire per la sua strada, al che Tokyo e Canberra dovranno a loro volta scegliere se seguire il tradizionale alleato oppure, per la prima volta, divergere per proteggere i propri interessi regionali.
Presente a Sydney per la visita di Shinzo Abe anche il ministro degli Esteri Julie Bishop che ha negato di aver mai avuto l’intenzione di partecipare nello stesso weekend all’annuale Portsea Polo sulla Mornington Peninsula. Diverse fonti però, riportate ieri dall’edizione domenicale del The Age, assicurano il contrario. La partecipazione del ministro, invitata da uno dei maggiori sponsor dell’evento, era stata data per certa fino all’ultimo e la stessa marca di abbigliamento Hugo Boss ha fatto sapere di aver preparato un outfit che Julie Bishop avrebbe dovuto indossare alla partita di polo di sabato. Un evento a cui il ministro aveva già preso parte l’anno scorso insieme al partner David Panton facendolo figurare come “impegno ufficiale” e chiedendo un rimborso spese di 2.716 dollari.
Ma quest’anno tira una brutta aria, rimborsi un po’ troppo ‘allegri’ hanno già fatto saltare la testa dell’ex ministro della Sanità Sussan Ley e Julie Bishop ha preferito rinunciare al polo piuttosto che vedersi anche lei travolta dallo scandalo.
Non c’è niente di male a partecipare ad eventi sportivi a spese dei contribuenti perché “la gente se lo aspetta”, è stato il commento del ministro del Commercio Steven Ciobo. Si aspetta di vedere un ministro al polo o alla finale di footy. Sono “assolutamente spese di lavoro” perché in queste occasioni gli sponsor che invitano i politici hanno “l’opportunità di mettersi in vetrina” (perché allora non sono le aziende a pagare invece dei cittadini, ci si chiede). Ad ogni modo, avrà pensato Julie, meglio non rischiare.
Per calmare le polemiche, che hanno interrotto l’abituale ‘silly season’ riportando la politica australiana sotto i riflettori, Malcolm Turnbull ha annunciato la creazione di un ente indipendente di controllo delle spese parlamentari che avrà l’autorità di monitorare e approvare tutti i rimborsi di deputati, senatori e ministri e far loro sapere se le richieste rispettano il regolamento. L’ente seguirà le raccomandazioni pubblicate già a febbraio 2016, e accettate in toto dal governo, nella revisione del sistema dei rimborsi parlamentari seguita allo scandalo del ‘Choppergate’ quando l’ex presidente della Camera Bronwyn Bishop aveva speso $5.227 in soldi dei contribuenti per un elicottero noleggiato per andare da Melbourne a Geelong per un evento del partito liberale.
“Gli australiani hanno il diritto di vedere che i loro soldi sono spesi in modo appropriato, nel rispetto delle regole ma anche in modo da assicurare un buon rapporto costi-benefici” ha dichiarato Turnbull. I politici – ha aggiunto – “hanno a che fare con i soldi degli altri”, sono “i fiduciari dei cittadini australiani”.
La classe politica però sembra completamente distaccata dalla realtà. Con uno stipendio base da parlamentare di 199.040 dollari (che arrivano a 522.000 per il primo ministro, il quinto leader più pagato del mondo, e con una maggiorazione del 75% per tutti i ministri di gabinetto), è difficile per un politico mettersi nei panni del cittadino medio, con un reddito di $80,704 lordi a famiglia (dati ABS riguardanti il quintile mediano nel 2013-14) e percepirne la rabbia di fronte a spese tanto sconsiderate. Spendere 7000 dollari per un volo da Canberra ad Adelaide come ha fatto Ley, quando ci sono voli sulla stessa tratta a $190, magari rispetta le regole, avvalendosi delle loro ‘aree grigie’, ma è irrispettoso nei confronti dei cittadini, uno schiaffo in faccia a chi non ce la fa e ad ogni budget si deve sentire dire che i tempi sono duri e dobbiamo stringere la cinghia.
Ma, in questo inizio 2017, in cui l’ennesimo scandalo sulle spese dei parlamentari corre pericolosamente parallelo con il caso Centrelink, che ha visto cittadini beneficiari di welfare ricevere richieste di restituzione dei sussidi per colpa di un errore informatico, la gente davvero non ci crede più. I tempi sono duri sempre per gli stessi.