Da Endeavour Hills e Martin Place nel 2014, fino all’assedio di Brighton dello scorso giugno, negli ultimi tre anni, l’Australia è stata colpita da sette attacchi terroristici (e diversi altri, dicono le autorità, sono stati sventati). Gravissimi attentati si sono verificati, e continuano a verificarsi, in tutto il mondo, colpendo sempre più spesso ‘soft target’ imprevedibili e alzando la tensione tra la popolazione.
Rispondendo a questa scia di terrore, la settimana scorsa, il governo di Canberra ha presentato una nuova e più stringente normativa unica sulla sicurezza che investe di maggiori poteri le forze dell’ordine e crea una banca dati nazionale contenente foto di passaporti, patenti e visti. Premier e ministri capo degli Stati e Territori australiani, riuniti giovedì scorso al COAG, hanno dato il loro assenso unanime. Ma le nuove misure sulla sicurezza, in base alle quali i sospetti di terrorismo, ma anche di altri reati gravi, inclusi i minorenni, potranno essere detenuti senza accusa per due settimane, hanno attirato le critiche dei difensori dei diritti civili che hanno sottolineato il rischio che questi poteri vengano abusati e si arrivi alla violazione di libertà fondamentali.La risposta è arrivata dal premier del Victoria, Daniel Andrews, che ha detto, e ribadito ieri, che nella situazione in cui ci troviamo, i politici non possono permettersi il “lusso” di pensare se maggiori poteri alla polizia significhi infrangere libertà civili, i politici devono dare alle forze dell’ordine tutto quello di cui hanno bisogno per combattere il terrorismo.
La questione è delicata e complessa. Da una parte è ovvio che qualsiasi cittadino onesto, che non ha niente da nascondere, non abbia alcun problema ad avere la foto della propria patente in un database nazionale, se questo porta all’identificazione più rapida ed efficace di terroristi e criminali. Anzi, come dimostrano i sondaggi effettuati dopo gravi attacchi terroristici, è il pubblico stesso a dirsi disposto a rinunciare a qualche libertà in nome della sicurezza e i leader politici, anche i più progressisti, hanno paura di essere accusati di non agire e di subire conseguenze elettorali se non attuano o non si schierano a favore di conseguenti giri di vite. Ecco quindi che la questione della sicurezza, con il suo carico emotivo, è sempre una politica bipartisan.
Ma il problema, sottolineato da molti analisti e attivisti, è che queste leggi possono essere facilmente estese al di fuori dell’ambito dell’antiterrorismo e della sicurezza nazionale. Con diverse conseguenze: repressione del dissenso, censura, discriminazione contro minoranze etniche o religiose ritenute ‘a rischio’ (come i musulmani), maggiore facilità di commettere errori giudiziari (un caso su tutti: quello di Mohamed Haneef, il dottore indiano erroneamente arrestato nel 2007 all’aeroporto di Brisbane con l’accusa di terrorismo e successivamente lautamente risarcito dal governo federale).
L’Australia non è certamente la sola a muoversi in questa direzione. Per fare un esempio, sempre la settimana scorsa, anche il parlamento francese ha approvato una controversa legge antiterrorismo, che consentirà alla polizia di condurre raid e perquisizioni senza mandato, decidere gli arresti domiciliari senza seguire il normale iter giudiziario e imporre restrizioni su raduni e assemblee e sugli orari di apertura dei luoghi di culto. Anche in Francia, le misure sono state aspramente criticate dagli attivisti per i diritti umani e civili, i quali hanno sottolineato, tra le altre cose, come il rafforzamento del potere esecutivo ai danni del potere giudiziario minacci lo Stato di diritto.
Un altro aspetto controverso è l’efficacia di tali provvedimenti. Già prima dell’11 settembre erano state promulgate specifiche leggi antiterrorismo (ad esempio, nel Regno Unito, uno dei Paesi più colpiti dalla recente ondata di attacchi, il Terrorism Act del 2000 ampliava la definizione di terrorismo e rendeva permanenti alcune misure emergenziali introdotte nei decenni precedenti per combattere la violenza politica in Irlanda del Nord). Ma è soprattutto dopo l’attacco alle Torri Gemelle, e quelli di Madrid del 2004, che si è vista l’escalation con una fitta serie di nuove normative (nel caso australiano, le Anti-terrorism Bill del 2004 e l’Anti-Terrorism Act del 2005). E, mentre ci siamo ormai abituati a certe restrizioni e violazioni della privacy, gli attentati non si sono fermati.
La risposta dei leader politici, non solo australiani, è ora un’ulteriore stretta. “È illusorio e pericoloso credere che le misure che andavano bene in passato, vadano bene oggi” ha detto ieri il premier del Victoria Daniel Andrews, durante alla trasmissione Insiders sulla Abc.
Tra i temi affrontati nell’intervista con Barrie Cassidy, anche quello, pressante, dell’energia. Andrews ha difeso il divieto al ‘fracking’ in vigore nel Victoria, criticato dal primo ministro Malcolm Turnbull, dicendo che, secondo gli esperti geologi, “non ci sono riserve di gas certe o probabili nello Stato” e affermando che non danneggerà il territorio su cui fanno affidamento allevatori, agricoltori e il settore del turismo. Il problema in Australia – ha sottolineato Andrews – non è che non c’è gas a sufficienza per tutti, ma la mancanza di una leadership politica che faccia in modo che questo gas vada prima di tutto ai consumatori australiani e solo dopo venga esportato. “Non fateci competere con il resto del mondo per qualcosa che viene dalla nostra terra” ha detto il premier del Victoria.
In Queensland e South Australia, intanto, sono già cominciati i preparativi per le elezioni statali del prossimo anno che vedranno sempre più protagonisti i partiti minori. Nonostante qualche problema si faccia sentire.
Nick Xenophon, che ha annunciato le imminenti dimissioni da senatore per tornare a correre nel suo Stato d’appartenenza, è infatti alle prese con alcuni ‘impresentabili’ nel suo nuovo partito SA Best. Prima il candidato Rhys Adams, cacciato immediatamente dopo la foto postata sui social network in cui derideva l’esperienza di violenza domestica della cantante Rihanna, poi il controverso post del 2013 riemerso dall’account Facebook della candidata Kelly Gladigau e di suo marito Travis, in cui si commentavano gli insulti razzisti contro il giocatore di AFL Adam Goodes, definendolo “debole” per essersi offeso di essere stato chiamato ‘scimmia’. Ma, nonostante il team ancora da affinare, nessuno si sorprenderebbe se Xenophon ottenesse un ottimo risultato in South Australia, finendo secondo o addirittura primo a parito merito con i laburisti. E, anche se a livello federale sia il liberale Christopher Pyne che il leader dell’opposizione Bill Shorten lo attaccano, a livello statale entrambi i partiti sanno che non potranno condurre una campagna troppo dura contro il suo schieramento, perché con lui potrebbero essere costretti a formare una coalizione di governo.
In Queensland, i guai per Pauline Hanson arrivano invece da un sondaggio che ha rivelato che solo il 47% dei suoi sostenitori nello Stato crede nelle politiche di One Nation, anche se il 57% ritiene comunque che il partito sia il “male minore”. “Non è che la gente voglia votare per [One Nation] è che non vogliono votare per nessun altro” dice Alex Scott, il segretario statale del sindacato Together, che ha commissionato il sondaggio.