Un importante passo nella giusta direzione sia per il Paese, ed è la cosa più importante, sia per il governo. L’accordo raggiunto mercoledì scorso con le tre grandi compagnie del settore energetico, Origin, Shell e Santos, per garantire almeno la metà di quanto serve per il fabbisogno nazionale di gas nel 2018 e 2019, ha dato un attimo di respiro a Malcolm Turnbull ed evitato l’intervento, tutto meno che ‘liberale’, dell’imporre un limite alle esportazioni di gas per evitare un’assurda mancanza di scorte nel Paese.
I vertici dei tre grandi produttori ed esportatori e il primo ministro non potevano non raggiungere un’intesa-compromesso: dovevano trovare una soluzione matura, soddisfacente per tutti. E’ il primo passo che non porterà di certo ad alcuna riduzione dei prezzi (al massimo ad un contenimento degli aumenti) e che non risolve il problema a lunga scadenza. Una soluzione-tampone che tiene tutto a galla per un paio d’anni, in attesa della vera soluzione che è quella più complicata, e allo stesso tempo più ovvia, dell’aumentare la produzione di gas.
Complicata nell’attuazione, date certe prese di posizione di alcuni Stati ma ovvia date le immense risorse naturali a portata di mano. Indice puntato a questo punto sull’intransigenza ‘ambientale’, che gli esperti del settore non riescono a capire, del Victoria, New South Wales (che non produce nemmeno un gigajoule di gas pur essendo lo Stato che ne consuma di più) e Northern Territory in particolare, ma anche del Western Australia e della Tasmania.
Il Victoria è un caso limite: grandissimo esportatore, disposto a spedire le sue risorse in Queensland e Western Australia per la distribuzione in Asia, e poi costretto a ricomprarne una parte (facendosela quindi rispedire indietro con un aggravamento dei costi) per il proprio fabbisogno, oltre che importare ingenti quantitativi di gas dalla Louisiana (Stati Uniti) e dal Medio Oriente. Qualcuno potrebbe pensare a qualche forma di pazzia incontrollata o masochismo finanziario. Il tutto abbinato, e questo vale anche per il New South Wales, al congelamento di qualsiasi nuova attività di esplorazione ed estrazione. Basti pensare al no, ribadito la scorsa settimana dal premier Gladys Berejiklian, al Narrambri Gas Project, con la possibilità di produrre il 50 per cento del proprio fabbisogno di gas, e un lento procedere per valutare le prospettive di estrazione nell’area della Pilliga Forest (North West Plains). Non se ne fa niente per un’infinita serie di opposizioni che vanno da stretti e sicuramente giustificabili (ma negoziabili) criteri ed esigenze ambientali ad interessi dei proprietari delle aree di esplorazione ed eventuale sfruttamento dei depositi.
Un’insolita partnership verdi-agricoltori blocca anche il Victoria e lo stesso leader dell’opposizione federale Bill Shorten ha invitato il ‘collega’ di partito Daniel Andrews a mostrare un tantino di maggior flessibilità permettendo l’estrazione di gas dai pozzi convenzionali, ‘autorizzandolo’ però a mantenere il suo ‘no’ al cosiddetto fracking, l’estrazione di gas naturale via fratturazione idraulica che continua a far discutere per i presunti rischi ambientali che presenta. Lo shale gas può sicuramente offrire nuove opportunità economiche, ma continua a rappresentare una modalità controversa di estrazione. Probabilmente il fattore che più preoccupa le comunità locali è il rischio che sostanze chimiche vadano a inquinare le riserve idriche. Una paura determinata da alcuni incidenti accaduti negli Stati Uniti ove il metano è effettivamente filtrato nella falda acquifera, ma la contaminazione sarebbe avvenuta esclusivamente perché i pozzi di estrazione non sono stati adeguatamente sigillati, a causa di standard insufficienti di attenzione e non ad un processo di estrazione che gli esperti assicurano essere perfettamente sicuro.
Troppi rischi comunque sia per Andrews sia per Berejiklian, nonostante ampie divisioni all’interno dei due governi, (il primo laburista e il secondo liberale) ma solo una questione di impegni precedentemente presi per ciò che riguarda l’estrazione ‘naturale, diretta da giacimenti esistenti non sfruttati per ‘contratti’ di produzione che nessuno vuole andare a rivedere. Interessi sopra ogni cosa da tutte le angolature, compresa la ‘minaccia’ di Canberra di ripercussioni fiscali nei confronti degli Stati che non vogliono collaborare in un piano nazionale energetico che ancora non c’è. ‘Punizioni’ che potrebbero riguardare le entrate da Gst con ‘penalizzazioni’, estremamente difficili da calcolare (anche se quando ci sono di mezzo milioni i governi hanno la capacità di diventare eccezionalmente creativi) per chi non si adegua mettendo in conto, di fatto, entrate ‘rifiutate’ a causa di prese di posizione su risorse non sfruttate, anche se rientrano nell’interesse nazionale, nel grigio ‘mix interpretativo’ di ‘proprietà’ (degli Stati) delle risorse stesse, ma responsabilità federali del loro sfruttamento. Una legge ‘punitiva’ che viene già applicata nel campo del gioco d’azzardo con gli Stati che si rifiutano di aumentare le loro entrate via poker machine che ricevono una percentuale inferiore di compensi federali che provengono dalla ricca ‘torta’ delle scommesse.
Per Turnbull quello dell’energia continua ad essere il problema numero uno e allo stesso tempo una specie di ancora di salvezza: se riesce in qualche modo a dare l’impressione di essere in controllo della situazione, di riuscire a trovare la magica formula di garantire la produzione, continuando a puntare su un programma credibile e sostenibile di sviluppo di energie rinnovabili e, allo stesso tempo, calmierare i prezzi, le sue fortune elettorali potrebbero davvero cambiare e decollare, altrimenti gli elettori staccheranno la spina al suo governo con largo anticipo, esattamente come avevano fatto con Julia Gillard .
Operazione riuscita quindi sul fronte del puntellamento dell’approvvigionamento di gas per i prossimi due anni (guarda caso, più o meno, fino a conclusione del mandato), ma ora imperativo passare alla fase due, quella di puntare dritto su Stati e Territori (il NT sembra abbia 200 anni di riserve di gas naturale non sfruttate).
A Turnbull il compito di trovare, abbastanza in fretta, la formula vincente, armato delle importanti informazioni ricevute dall’ACCC sullo stato reale della situazione (in fatto di riserve necessarie per evitare una crisi energetica), dal rapporto Finkel su una serie di ‘soluzioni’ da poter adottare per pianificare il futuro e l’arma in più della Commissione Federale sulla redistribuzione delle entrate da Gst da poter ‘usare’ per convincere, a suon di incentivi o penalizzazioni, gli Stati ad essere più cooperativi, con l’aiutino extra della nuova svolta a favore (ma è anche un messaggio abbastanza chiaro su direzioni future che riguardano un po’ tutti Paesi industrializzati) di un grande interessamento cinese per la produzione di litio (componente fondamentale delle batterie per lo stoccaggio di energia). Il ‘Lucky country’ ancora una volta non si smentisce: è il secondo produttore mondiale (dietro il Cile e in diretta competizione con l’Argentina) del leggerissimo metallo, la cui domanda mondiale potrebbe triplicare entro il 2025.