Pausa pasquale? Mica tanto, con botta e risposta nella giornata di mezzo: sia Scott Morrison sia Bill Shorten, infatti, sabato un annuncio l’hanno voluto fare rinunciando al ‘ponte-tregua’ che si erano riproposti di rispettare e che avrebbe dovuto servire più al leader dell’opposizione che al primo ministro per riflettere su qualche giro a vuoto nella prima settimana di campagna, vinta ai punti dal capo di governo.
Riflettori spenti, ma solo ad intermittenza dunque: silenzio elettorale mantenuto solo venerdì e ieri. Shorten ha quindi rinunciato all’opportunità di riprendere fiato dopo le due o tre gaffe che l’hanno visibilmente infastidito e creato un minimo di euforia nelle fila della Coalizione.
Qualche brutta figura meglio farla all’inizio della campagna elettorale piuttosto che alla fine e quindi nessun allarme e controffensiva immediata, con la promessa del ripristino degli indennizzi di straordinario per il lavoro domenicale e nelle giornate festive, nei primi 100 giorni di un futuro governo laburista, per chi lavora nei campi dell’ospitalità e delle vendite al dettaglio. Ritorno a condizioni salariali pre-governo Abbott senza perdere un attimo di tempo. Morrison risponde con stanziamenti extra nel settore della Sanità.
Provvedimenti mirati per le aree regionali e un investimento di 65 milioni per creare un’unità specializzata in fibrosi cistica (malattia genetica piuttosto grave) in un ospedale dei quartieri occidentali di Sydney.
Niente tregua perché il tempo stringe e non bisogna lasciare il minimo spazio all’avversario. Il primo ministro la scorsa settimana si è preso qualche pacca sulle spalle per la prontezza di riflessi con cui ha reagito alle prime difficoltà di Shorten. Immediato l’incalzare per cercare di evidenziare che il leader d’alternativa non ha le idee chiare sul da farsi, che, quando messo alle strette sui costi delle sue promesse, preferisce cercare di cambiare discorso. Lo spiraglio per l’attacco è stato offerto da mancate risposte sui costi del progetto ambientale laburista e un bel po’ di confusione sulle modifiche annunciate al riguardo delle imposizioni fiscali sui fondi di Superannuation.
Pronti i titoli favorevoli sui giornali che appoggiano piuttosto apertamente la campagna del governo. I quotidiani del gruppo News Corp non si sono tirati di certo indietro per rafforzare quelli che interpretano o vogliono interpretare come umori di svolta che comincerebbero ad affiorare qua e là. Puntuali quindi le analisi per spiegare perché il governo, di minoranza, che deve quindi aumentare il suo numero di seggi per essere riconfermato, è già sulla strada buona in quanto potrebbe conquistarne addirittura due in Tasmania (Bass e Braddon), due in New South Wales (Wentworth, ora che dovrebbe essere smaltita la rabbia per il golpe ai danni di Turnbull) e Lindsay, dopo il forzato abbandono della laburista Emma Huser; a portata Cowan e Herbert in Queensland, pur ammettendo che probabilmente la Coalizione perderà Dickson, il seggio di Peter Dutton. Possibilità di strappare ai laburisti Solomon nel Northern Territory e sconfitta minima nel Victoria con perdita, sulla carta, di Dunkley e Corangamite (anche se sembra che la liberale Sarah Henderson stia recuperando terreno rispetto al risultato minimo del 2016), ma possibile difesa di Chisholm, nonostante l’uscita di scena della poco liberale Julia Banks e recupero di Indi ora che l’indipendente Cathy McGowan ha deciso di abbandonare la vita parlamentare. Basta non subire perdite nel South Australia e nel Western Australia e i giochi sono fatti.
Naturalmente qualcuno potrebbe tranquillamente teorizzare esattamente allo stesso modo in favore dei laburisti andando a cercare i seggi che i liberali detengono con un minimo vantaggio, quindi a portata, sottolineando tra l’altro la possibilità che Wentworth e Indi rimangono nelle mani di indipendenti, con l’aggiunta di Flinders, che il ministro della Sanità Greg Hunt potrebbe effettivamente perdere data la campagna-contro proprio della Banks, sostenuta finanziariamente anche da Turnbull (Alex, ormai apertamente super critico nei confronti del Partito liberale).
La prima settimana di campagna ha visto l’economia al centro del dibattito politico, il tema su cui Morrison punta buona parte delle sue carte elettorali. Ma se pensa di guadagnare terreno parlando di 367 miliardi di nuove tasse in dieci anni con un governo laburista o di un aumento del debito di oltre 240 miliardi nello stesso arco di tempo se gli australiani il 18 maggio sceglieranno Shorten, probabilmente sbaglia perché gli elettori sono tendenzialmente più interessati a numeri e paure più comprensibili, più vicini alla loro vita di ogni giorno.
Parlare di debito poi presenta anche qualche rischio per la Coalizione, dato che qualcuno potrebbe fare osservare, di nuovo ricorrendo ai grandi numeri, che è quasi raddoppiato da quando a Canberra ‘sono ritornati gli adulti’, come aveva annunciato Tony Abbott dopo la vittoria del 2013.
La verità è che, tolta la questione economica, Morrison non ha molte armi in mano: sulle promesse di riduzioni fiscali siamo praticamente al pareggio, con un piccolo vantaggio laburista su quelli che, comunque, probabilmente già votano per Shorten (la fascia di popolazione con il reddito più basso) e sui tempi di introduzione dei tagli. Sui finanziamenti per scuola e sanità non c’è quasi mai partita, se non sul fronte dei costi e sembra un po’ avventuroso il tentativo, da parte di qualche anonimo liberale, di gettare in mischia, via Facebook, l’idea-spauracchio di una tassa di successione contemplata in casa laburista. Una proposta che, come il treno ultraveloce Sydney-Melbourne, rispunta puntualmente quasi in ogni campagna ritagliandosi qualche attimo di attenzione prima delle smentite di rito, perché sarebbe un autentico tentativo di suicidio politico pensarci veramente (stiamo parlando della tassa ovviamente, il treno fa giusto ‘colore’).
Harakiri a parte, tutto è sempre possibile in politica: ci sono numerosi esempi di rimonte che sembravano impossibili, di sconfitte date per certe che non si sono materializzate. Hawke, Keating, Howard ne sanno qualcosa ed è indubbiamente una mossa intelligente quella di Morrison di tenersi in costante contatto con il primo ministro di maggior successo degli ultimi vent’anni (John Howard) per avere qualche consiglio extra per cercare di smentire le previsioni di una sconfitta quasi certa. D’altra parte l’ex Pm nel 2004 ha aperto la sua campagna in una posizione ancora più precaria di Morrison nei sondaggi: l’ultimo rilevamento della Newspoll, prima dell’inizio della volata elettorale, dava i laburisti di Mark Latham in vantaggio, in percentuale, per 54 a 46 poi, qualche abile mossa tattica in Tasmania, del valore di tre seggi, grazie ad un accordo con i sindacati del settore del legname, ha dato il via ad un incredibile recupero, aiutato dalla famosa ‘violenta’ stretta di mano dell’imprevedibile leader laburista davanti alle telecamere, a dimostrazione che tra i sondaggi e un numero sulla scheda elettorale c’è sempre di mezzo il famoso mare.
Un mare che comprende, in una campagna di tipo presidenziale come in Australia, anche i fattori immagine e simpatia con cui dover fare i conti. E Morrison in questo caso qualche vantaggio sembra averlo: i giudizi nei suoi confronti non sono estatici, ma in linea di massima è considerato politicamente ‘accettabile’ nel ruolo che è stato chiamato a ricoprire più o meno otto mesi fa. Shorten, invece, è lì a martellare idee e critiche da quasi sei anni, ha mostrato indubbie capacità di leadership, ma sul fronte della fiducia nei suoi confronti continua ad avere problemi. È padrone assoluto a casa sua, ma c’è qualcosa che non convince interamente gli elettori, perlomeno quel 20 per cento circa che, tradizionalmente, aspetta quasi fino alla fine della campagna per decidere. Il momento in cui anche l’essere ‘accettabile’, il “he is all right” può essere meglio del “I am not sure about him” ovvero ‘non sono sicuro/a, non mi convince’.