La differenza c’è e si sente. Con John Howard si poteva e si può essere o non essere d’accordo su svariati temi, oggi come quando era al guida del Paese, ma bisogna riconoscere che l’ex primo ministro sapeva e sa farsi ascoltare.  L’intervista concessa la scorsa settimana al programma AM dell’Abc è stato un esempio di quello che c’era e non c’è più a Canberra: la capacità cioè di un leader di spiegare con semplicità i perché di una decisione e le conseguenze di fare o non fare qualcosa.

L’ex primo ministro ha dichiarato che farà campagna per il ‘no’ al plebiscito (se si terrà) sui matrimoni gay, oltre che per una questione di propri valori e convinzioni in merito, per le conseguenze che il ‘si’, a suo parere, avrebbe su alcuni diritti e libertà, come quella di religione, che non vengono al momento sufficientemente dibattuti. Ha difeso il cambiamento che lui stesso ha portato alla legge sul matrimonio (tra uomo e donna) nel 2004 per evitare continui ricorsi ai tribunali e l’ha fatto, ha ricordato, senza clamori grazie al pieno appoggio dei laburisti “che - ha detto Howard - ora gridano al ‘bigotto’ appena qualcuno mostra qualche dubbio su un profondo cambiamento della nostra società”.

Nessun pronostico sull’esito del plebiscito perché, ha spiegato l’ex leader liberale, moltissimi elettori hanno le idee ben precise in merito, ma molti di più non hanno ancora deciso e si stanno ponendo diverse domande.

Rilassato anche sul ruolo internazionale dell’Australia “incentrato sull’Asia ma non solo sull’Asia”, sulla presidenza Trump, “controversa finché si vuole, ma sulla quale è inutile recriminare in quanto il candidato repubblicano ha vinto le elezioni e per i prossimi quattro anni sarà l’inquilino della Casa Bianca”.

Sdrammatizzazione completa della saga sulla cittadinanza: tanto rumore per nulla, ha praticamente detto l’ex pm, ricordando che fino al 1948 australiani, neozelandesi, canadesi erano tutti cittadini britannici e che pertanto ci saranno molto più parlamentari di quelli finora ‘scoperti’ con un problema ‘ereditario’ che l’Alta Corte è chiamata a risolvere il mese prossimo. Una tempesta in un bicchier d’acqua.

Una tempesta che continuerà in aula questa settimana quando Barnaby Joyce, per un giorno, assumerà le redini del Paese con Malcolm Turnbull impegnato a Samoa nel Forum delle Isole del Pacifico. Il primo ministro, come lo scorso anno, parteciperà sola alla giornata conclusiva del vertice, quindi giovedì prossimo sarà il leader dei nazionali a gestire i lavori parlamentari, con i laburisti che hanno già minacciato l’abbandono dell’aula in segno di protesta. Un altro giorno di caos quindi in Parlamento, che sta diventando un teatrino di piccoli inconcludenti attori che sembrano non rendersi conto che stanno sempre più contribuendo a quella disaffezione generale dei cittadini nei confronti della politica e soprattutto dei maggiori partiti, ormai da troppi anni concentrati su uno scontro imperniato più sulla persona che su idee e progetti. Il classico esempio è il dibattito che praticamente non c’è sul tema che dovrebbe essere di primissimo piano del futuro energetico del Paese. Di quella corsa a testa bassa verso le rinnovabili che ha duplicato (se basta) i costi di gas ed elettricità, mettendo in crisi industrie e famiglie. Entrambi i maggiori partiti (anche se la bilancia pende abbondantemente dalla parte laburista) stanno fissando ambiziosi traguardi sulla riduzione delle emissioni rifiutandosi di accettare la realtà di costi che stanno diventando sempre più proibitivi, con una rinuncia ideologica ad un mix di produzione energetica che potrebbe e dovrebbe (date le ampie riserve del Paese) tranquillamente coinvolgere anche il carbone con impianti di nuova generazione, a basso impatto inquinante, come quelli adottati, e che si continuano a costruire, in Paesi non certo indifferenti alla difesa dell’ambiente come la Germania, la Corea del Sud, il Giappone e l’Olanda. Ma il primo ministro proprio la scorsa settimana ha detto ancora una volta ‘no’, ribadendo il suo piano di sviluppo dell’idroelettrico con il progetto dello Snowy 2.0 di cui, in termini pratici di tempi e livelli di produzione di energia, si sa ancora ben poco ,tanto che il New South Wales e il Victoria, proprietari dell’87 per cento dello Snowy Hydro, sono ancora all’oscuro di qualsiasi particolare di un’iniziativa di cui hanno saputo solo attraverso gli annunci pubblici del capo di governo.

Turnbull comunque la scorsa settimana ha incontrato per la seconda volta i vertici delle aziende produttrici di energia cercando di trovare un accordo per contenere i costi e si è ripromesso di fissare, entro la fine dell’anno, degli obiettivi di produzione affidata alle rinnovabili. Un quadro chiaro per tutti, su scala nazionale, riportando sotto controllo le stravaganze degli Stati, per cercare di offrire agli investitori e produttori del settore quelle garanzie che potrebbero mitigare i costi e i prezzi.

Il problema è reale e il futuro del governo è sicuramente legato alla soluzione di una crisi che ha raggiunto i livelli di guardia e che potrebbe diventare o il trampolino di lancio per una risalita o la pietra tombale dell’attuale amministrazione e in modo particolare del suo leader.

Turnbull già spacciato? È stato chiesto a Howard. Scontato il ‘no’ di un ex leader che di esperienze di morte apparente ne ha vissute parecchie. I recuperi in extremis, spesso contro ogni previsione, sono state un po’ una sua specialità. E Turnbull, che ora naviga in acque tormentate tra elettori delusi e colleghi impauriti da sondaggi regolarmente negativi, conta di poterlo in qualche modo imitare. Di poter ripartire con un po’ di vento dietro le vele della Coalizione grazie ai cruciali interventi dell’Alta Corte delle prossime settimane. Guardando al bicchiere mezzo pieno (in casa liberale), si potrebbe infatti parlare di una svolta nel caso, possibilissimo, che i giudici decidano già questa settimana che il plebiscito si può fare. Si proseguirà quindi con il voto che durerà fino a novembre. Nel caso poi di una vittoria del ‘sì’, ecco il promesso ricorso per direttissima al voto in Aula grazie ad un ddl pronto per l’occasione e il veleggiare verso un’approvazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso che toglierebbe al primo ministro un grosso handicap, liberandolo dalle ultime catene della destra del partito.

Un altro tassello per una svolta, il possibile verdetto, sempre dell’Alta Corte, a favore di Joyce & Co.. In quel caso capitolo sulla cittadinanza definitivamente chiuso prima della pausa estiva e ripartenza nel nuovo anno con tre zavorre in meno: una, quella sull’energia, di straordinaria importanza, le altre due solo delle ‘distrazioni’ che stanno però pesando e intralciando non poco il cammino parlamentare. Con davanti un altro anno e mezzo di mandato, la partita potrebbe cambiare e ritornare un tantino più aperta di quella che sembra oggi, con Turnbull alle corde e Bill Shorten che incamera punti senza doversi impegnare più di tanto.

Sulla questione della sicurezza e dell’immigrazione, nonostante le lamentele ‘internazionali’ per ciò che concerne il giro di vite sui visti e l’imbarazzante, dal punto di vista ‘umanitario’, trattamento dei rifugiati (in questo caso con i laburisti silenziosi alleati), la Coalizione non corre particolari rischi e potrebbe cominciare a puntare con maggior decisione sui temi economici e fiscali. Ieri è rispuntato quello delle pensioni, con l’ammissione da parte del ministro della Sicurezza sociale, Christian Porter, che il governo non ha abbandonato la riforma, che era stata annunciata nel budget degli orrori del 2014, di un innalzamento dell’età pensionabile portandola dagli attuali 67 a 70 anni, con un incremento graduale (sei mesi ogni due anni) a partire dal 2025. “Un aggiustamento per contenere i costi del welfare, tenendo conto dell’allungamento delle aspettative di vita”, ha spiegato Porter, fornendo a Shorten fresche munizioni.