Ci risiamo. E’ un tema periferico che non incide minimamente sul presente e futuro della nazione, ma gli australiani sono in stragrande maggioranza favorevoli a dare la possibilità a persone dello stesso sesso di sposarsi. E la lobby LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transessuali) non è certo una di quelle che non si fa sentire, quindi tanto varrebbe, sostiene più di qualcuno anche all’interno del governo, lasciar perdere la promessa elettorale del non procedere se non attraverso il plebiscito (bocciato dal Senato) e formalizzare, con il voto in Aula, un ‘diritto’ per il quale si sono insolitamente schierati a gran voce anche alcuni dei più noti leader di aziende di spicco del Paese. Una lettera pro-matrimoni gay, firmata da una ventina di amministratori delegati di primissimo piano, è stata indirizzata al capo di governo affinché si possa procedere in merito senza ulteriori perdite di tempo.

Per Turnbull, favorevole da sempre alla ‘causa’ LGBT, ma costretto ad accettare la linea Abbott del plebiscito nell’ambito delle condizioni fissate dalla frangia più conservatrice del partito (e dai nazionali) per affidargli la leadership, il tormentone dunque continua, con tanto di pericolo, dal punto di vista politico, di un agguato in aula di laburisti e verdi che potrebbe mettere a dura prova la ‘resistenza’ e ‘fedeltà’ di qualche collega del primo ministro. Un rischio costante e un problema che non avrebbe mai dovuto diventare tale.

Matrimoni gay che tengono banco dunque alla vigilia dell’ultima sessione parlamentare prima di quella del budget, con la bacchettata ai CEO (in modo particolare a quello della Qantas, Alan Joyce) del ministro dell’Immigrazione Peter Dutton che li invita a parlare di cose concrete sollevando un nuovo inutile polverone mediatico che ha costretto i ministri degli Esteri, Julie Bishop, e dell’Istruzione, Simon Birmingham, a cercare di placare le polemiche ricorrendo ad una ‘diplomatica’ accettazione di un dibattito infinito su un tema in cui “la libertà di pensiero va rispettata” indipendentemente da chi ritiene opportuno esprimere un parere al riguardo, siano essi dirigenti d’azienda o colleghi di partito. Capitolo chiuso?  Manco a pensarci, con Turnbull inevitabilmente costretto alla difensiva e forse anche tentato a cercare un compromesso interno magari mettendo sul tavolo qualche modifica, fortemente voluta dalla destra del suo partito, sulla legge anti-discriminazione razziale.   

Ma il piatto forte della settimana appena trascorsa, che avrà certamente un importante seguito in Aula, è stato quello della crisi energetica e delle molteplici soluzioni annunciate, anche con un imprevisto attacco frontale del premier del South Australia Jay Weatherill al ministro delle Risorse energetiche e dell’Ambiente Josh Frydenberg. Dopo essere stato per mesi l’obiettivo principale degli attacchi federali per i ripetuti ‘blackout’ in uno Stato che ha investito più di ogni altro sulle energie rinnovabili (soprattutto eoliche), il capo di governo del SA ha sparato a zero sul collega federale e sul primo ministro, difendendo a spada tratta un nuovo investimento di 550 milioni di dollari ‘in solitaria’ su gas e mega-batterie per accumulare (nelle giornate di ‘grazia’) l’energia generata dai suoi impianti eolici e solari. Un’altra scommessa per garantire affidabilità alla rete elettrica, anche in vista della chiusura della centrale a carbone di Hazelwood, nel Victoria, che spesso ha fornito energia al South Australia dopo la chiusura, forse un tantino affrettata, dei propri impianti a combustibile fossile.

Weatherill ha tirato fuori il petto è non si è di certo risparmiato negli attacchi verbali, che sono diventati virali in rete, contro un impassibile Frydenberg mentre Turnbull, a distanza, ha potuto controbattere parlando di una “dimostrazione, davanti agli occhi di tutti, di quanto sia sotto pressione per le sue avventuristiche scelte il premier del South Australia”, che ha portato il prezzo dell’elettricità nello Stato in questione ad essere il più alto d’Australia con una rete d’erogazione che è la meno affidabile del Continente.

Il primo ministro, una volta tanto, ha anche preso l’iniziativa nel dibattito sul futuro energetico del Paese lanciando il piano dello ‘Snowy Mountain 2.0’ annunciando un investimento di due miliardi di dollari per potenziare la produzione di energia  da fonti idroelettriche, oltre che strappare le dovute assicurazioni sulle garanzie di forniture di gas in Australia dalle maggiori aziende del settore. Un aggiustamento degli accordi presi dal governo Howard nel campo dell’export: una generosa incondizionata ‘licenza di vendere’ che Turnbull ha cercato di correggere convocando un vertice d’emergenza che sembra avere dato i risultati auspicati. Niente di geniale, tutto abbastanza logico in un dibattito che, come qualcuno ha fatto osservare in casa liberale, dovrebbe essere guidato interamente da Canberra e non lasciato agli Stati. Al momento, infatti, i programmi energetici, come il South Australia dimostra, sono frammentati e ‘personalizzati’, a seconda dei governi in carica, in una corsa alle rinnovabili tutto meno che orchestrata e, in certi casi, sostenibile.

Assolutamente necessario quindi formulare un programma ben preciso, con chiari traguardi ambientali, non frutto dell’improvvisazione, degli umori del momento, delle rivalità tra Stati e Canberra alimentate da differenze politiche e opportunismo: senza una direzione programmatica a livello nazionale non ci saranno mai gli investimenti necessari a soddisfare le esigenze del Paese e ci sarà sempre il rischio che ‘blackout’ e costi proibitivi tentino più di qualche azienda a cercare sicurezza e affidabilità in qualche altra nazione, forse anche un po’ meno ambiziosa dal punto di vista ambientale, ma che offre più garanzie e risparmi.

Un segnale piuttosto evidente di una certa insoddisfazione e qualche preavviso l’ha lanciato il direttore della BlueScope Steel (con impianti a Port Kembla e Hastings), Paul O’Malley, che ha fatto osservare, senza aggiungere altro, che i costi per l’energia negli Stati Uniti sono dieci volte inferiori a quelli che la stessa azienda paga in Australia. A buon intenditor...